Tesi magistrale
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42 KiB

%%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%%
\chapter{Introduzione}
Gli stimoli meccanici rivestono nell'ambito dei sistemi biologici un
ruolo importante nel determinare il corretto funzionamento di cellule,
tessuti e organismi complessi.
Mentre tradizionalmente la biologia si è occupata di studiare come
processi cellulari e intercellulari fossero regolati dalle reazioni
biochimiche e dalla genetica, il ruolo degli stimoli meccanici è stato a
lungo ritenuto marginale nella descrizione di questi processi.
Lo sviluppo di tecniche sempre più avanzate e precise per la
visualizzazione e la manipolazione di molecole all'interno di campioni
biologici ha iniziato a mutare questa concezione: oggi possiamo
indagare nel dettaglio il funzionamento dei motori molecolari
all'interno delle nostre cellule o misurare come variazioni nella
tensione applicata a un polimero possano indurre una riorganizzazione
strutturale nello stesso e cambiarne le proprietà biochimiche.
Per molti processi biologici il ruolo della forza è fondamentale,
ad esempio nei complessi proteici che legano tra di loro le cellule
in un tessuto, le \emph{giunzioni cellulari}.
Queste si comportano come complesse macchine in grado di elaborare
stimoli di tipo biochimico e meccanico, comunicando e interferendo
con le funzioni del resto della cellula.
Esistono diversi tipi di giunzioni cellulari, responsabili di
specifiche funzioni e caratterizzate dalla reciproca interazione di
diversi tipi di proteine. La dinamica della loro interazione viene
modificata e modulata dalle sollecitazioni meccaniche esterne,
permettendo alle giunzioni di comportarsi come \emph{trasduttori}
di segnali meccanici.
Diversi metodi sono stati proposti e realizzati sperimentalmente
per osservare l'attività di meccano-trasduzione nei sistemi
biologici \cite{Muhamed2017,Arbore2019}, sfruttando tecniche sia \textit{in vivo} che
\textit{in vitro}, osservando sia gli effetti macroscopici che
le interazioni tra singole molecole.
Nonostante ciò, per quanto riguarda le giunzioni cellulari, siamo
ancora lontani da una descrizione soddisfacente, sia da un punto
di vista qualitativo che quantitativo, dei meccanismi e delle
interazioni coinvolte.
Raggiungere una migliore comprensione riguardo al ruolo e al
funzionamento della meccano-trasduzione nelle giunzioni cellulari
rappresenta un terreno fertile e un forte stimolo per la ricerca
di base interdisciplinare, spingendo scienziati con formazioni diverse
ad unire le loro competenze e sviluppare tecniche complementari, in
modo da acquisire una visione sempre più globale su fenomeni
estremamente complessi, che coinvolgono simultaneamente processi
meccanici, termodinamici e biochimici.
Lo scopo di questo lavoro di tesi è, sviluppare, in gran parte
\textit{ex-novo}, un apparato sperimentale per lo studio della
meccano-trasduzione in contesti complessi come quello delle giunzioni
cellulari, basato sulla manipolazione ottica di due proteine
interagenti e il \textit{tracking} simultaneo, tramite microscopia di
fluorescenza, di altre singole biomolecole nei pressi del sito di
interazione.
La manipolazione tramite pinzette ottiche rappresenta infatti una
strada molto promettente per lo studio, anche quantitativo, di
effetti meccano-biologici, grazie alla possibilità di ottenere una
precisione di posizionamento nanometrica e di applicare alle molecole
un ampio intervallo di forze nell'ordine dei piconewton e dei
femtonewton.
Le pinzette ottiche permettono di sondare il comportamento di
complessi proteici sottoponendo due molecole interagenti a stress
meccanici controllati e andando a osservare come la dinamica delle
interazioni dipenda dalle forze esterne.
Questo tipo di esperimenti si riconduce alle
\emph{spettroscopie di forza},
che in generale vengono realizzate utilizzando diverse tecniche, come
la microscopia a forza atomica, le onde acustiche o le pinzette
ottiche.
I brevissimi tempi di risposta ottenibili utilizzando queste ultime,
inferiori al millisecondo, hanno fatto si che le pinzette ottiche
fossero applicate con successo allo studio di sistemi interagenti con
affinità molto deboli o rapide modifiche conformazionali, come i
motori molecolari \cite{Capitanio2012}.
L'apparato sperimentale descritto in questo lavoro consiste
sostanzialmente in una ricostruzione di quello utilizzato in
\cite{Capitanio2012}
per lo studio dei motori molecolari per quanto riguarda la componente
di spettroscopia di forza, integrato con un sistema di microscopia di
fluorescenza che consenta di osservare simultaneamente la dinamica di
singole molecole interagenti con le proteine intrappolate.
Infatti, fino a ora il principale limite di questi esperimenti è
stato quello di produrre informazioni dinamiche
esclusivamente sui due componenti interagenti selezionati per la
spettroscopia di forza, trascurando ogni altra possibile interazione.
Se in diversi scenari questo è più che sufficiente, in alcuni
sistemi biologici, questo approccio mostra evidenti limiti nello
studio di una complessa rete di interazioni, come quella delle
giunzioni cellulari.
Un apparato con queste caratteristiche dovrebbe consentire,
durante un esperimento di spettroscopia di forza, di registrare
simultaneamente sia la risposta meccanica delle due proteine
immobilizzate, sia l'eventuale interazione con altri fattori
opportunamente marcati presenti nella soluzione usata per
l'esperimento.
L'ostacolo principale al raggiungimento di questo risultato è dato
dalla difficoltà di visualizzare, tramite microscopia ottica,
l'attività di una singola molecola fluorescente sopra un fondo di
fluorofori liberi in soluzione.
Una soluzione tipicamente adottata prevede l'uso di schemi di
illuminazione come la riflessione interna totale
(TIRF, \textit{Total Internal Reflection Fluorescence microscopy})
o i fogli di luce inclinati
(HILO, \textit{Highly Inclined and Laminated Optical sheet
microscopy}),
in modo da ridurre il volume di campione eccitato e quindi l'emissione
di fluorescenza di fondo.
Questi schemi di illuminazione però richiedono requisiti molto
stringenti.
Ad esempio per poter utilizzare la TIRF, come approfondito in sezione
\ref{sec:fluo} è necessario che il volume osservato sia nelle
immediate vicinanze (poche centinaia di nanometri) della superficie del vetrino
coprioggetti usato per la preparazione del campione,
condizione che è impossibile realizzare negli esperimenti di
spettroscopia di forza, dove le proteine vengono funzionalizzate su
sfere di silice di dimensioni micrometriche.
In questo caso infatti il volume di campione
dove si trovano le proteine interagenti è posto a una quota significativa
rispetto alla zona illuminata nelle vicinanze del vetrino coprioggetti.
Scopo dell'apparato sperimentale sarà anche studiare la possibilità di
superare questo limite usando la sfera dielettrica come risuonatore
o focheggiatore ottico, e quindi come strumento in grado di trasferire la radiazione
di eccitazione dall'immediata prossimità del vetrino coprioggetti ai
fluorofori presenti in prossimità del sito di interazione.
In questo modo il segnale proveniente da molecole fuori fuoco,
lontane dalla microsfera, sarebbe efficacemente soppresso.
Nelle prossime sezioni è possibile trovare una trattazione più
approfondita degli argomenti introdotti, in particolare nella sezione
\ref{sec:giunzioni} vengono introdotte due importanti tipologie di
giunzioni cellulari particolarmente interessanti per studio con un
sistema combinato come quello qui descritto.\\
Nella sezione \ref{sec:ot} vengono trattate in maniera più
approfondita le pinzette ottiche e la loro applicazione agli
esperimenti di spettroscopia di forza.\\
Nella sezione \ref{sec:fluo} vengono introdotti i principali limiti
della microscopia di fluorescenza e le soluzioni proposte per il loro
superamento.
Nel capitolo \ref{cap:setup} vengono descritte nel dettaglio le
caratteristiche e le proprietà specifiche dell'apparato sperimentale
realizzato.
Nel capitolo \ref{cap:methods} vengono descritti i metodi utilizzati
per validare il funzionamento dell'apparato sperimentale,
quantificarne i parametri di funzionamento e realizzare misure su
campioni biologici.
Nel capitolo \ref{cap:results} sono analizzati i dati prodotti durante
le operazioni di validazione dell'apparato sperimentale e delle
procedure di misura per valutare le prestazioni ottenibili e la loro
adeguatezza agli esperimenti ipotizzati.
% Introduction on the importance of mechanotransduction
%%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%%
% between
\section{Giunzioni cellulari}
\label{sec:giunzioni}
Le giunzioni cellulari svolgono un ruolo fondamentale per l'esistenza
stessa degli organismi multicellulari.
Esse sono infatti responsabili della capacità delle cellule di
connettersi l'una con l'altra e di organizzarsi per formare tessuti e
organi con funzioni specifiche.
Le funzioni delle giunzioni cellulari vanno ben oltre quelle di una
passiva struttura di raccordo: esse sono responsabili, ad esempio,
di veicolare informazioni e sostanze tra una cellula e l'altra,
guidare la loro proliferazione o migrazione, mantenere la stabilità
dei tessuti o avviarne la riparazione quando necessario.
\begin{figure}[ht]
\centering
\includegraphics[width=0.5\linewidth]{images/adjunc.pdf}
\caption{Sequenza di cellule connesse da \emph{giunzioni aderenti}
(sopra) e dettaglio di una giunzione aderente, con indicazione
delle principali proteine coinvolte (sotto)}
\label{fig:ad_jun}
\end{figure}
Le giunzioni cellulari possono connettersi direttamente a strutture
interne della cellula (come il citoscheletro) e si formano
dall'auto-assemblamento di un grande numero di proteine differenti.
Per loro natura attraversano la membrana cellulare andando a formare
legami con strutture analoghe presenti in cellule adiacenti o con
strutture intermedie di supporto, come la matrice extra-cellulare.
Esistono diversi tipi di giunzioni che svolgono funzioni specifiche.
Un tipo di giunzione molto comune nei tessuti epiteliali e
endoteliali è la \emph{giunzione aderente}, rappresentata in modo
schematico in figura \ref{fig:ad_jun}.
Nelle giunzioni aderenti la proteina che direttamente ancora il
complesso alla membrana plasmatica è la \emph{caderina}.
Questa è una proteina trans-membrana costituita da un dominio di coda
citoplasmatico e un dominio di testa esterno alla membrana cellulare.
Il dominio extra-membrana è in grado di dimerizzare con domini
analoghi presenti in cellule adiacenti, formando la giunzione.
Il dominio intra-membrana permette di stabilire un collegamento
diretto tra la giunzione cellulare e il citoscheletro di actina,
grazie al legame con una classe di proteine, le \emph{catenine},
in grado di legarsi sia con la coda della caderina che con i filamenti
di actina del citoscheletro.
Oltre a questa connessione diretta esistono altre proteine che
mantengono una connessione indiretta, legando ad esempio le catenine
con il citoscheletro. È stato scoperto
\cite{Goldmann2016,Dumbauld2014} che le proteine
\emph{vinculina} e \emph{$\alpha$-actinina} svolgono questa attività.
Sebbene la funzione di questi collegamenti indiretti non sia stata
ancora del tutto compresa, è stato dimostrato che la presenza
delle proteine responsabili di tali collegamenti è fondamentale per il corretto sviluppo
dei tessuti.
Esperimenti su colture cellulari in cui il gene che codifica l'espressione
della vinculina è stato rimosso suggeriscono come, oltre ad una
riduzione generale dell'adesione tra cellule, si perdano alcune funzioni
di regolazione
e modulazione dell'attività delle giunzioni.
La vinculina, quindi, così come altre proteine secondarie, potrebbe
avere un ruolo nel modulare i meccanismi di adesione e svolgere un
ruolo nei processi di meccano-trasduzione.
La possibilità di realizzare esperimenti di spettroscopia di forza in
cui è possibile tenere traccia dell'attività di una o più proteine
secondarie apre la strada verso una maggiore comprensione del loro
ruolo.
Lo stato attuale delle conoscenze sulla rete di interazioni che
governa e regola il funzionamento delle giunzioni aderenti è riportato
schematicamente in appendice \ref{app:junctions}, sotto forma di
diagramma delle vie di segnalazione.
\begin{figure}[ht]
\centering
\includegraphics{images/aj.pdf}
\caption{Ruolo di \textbf{caderina} e catenine nelle
\textit{giunzioni aderenti}}
\label{fig:aj}
\end{figure}
\vspace{1em}
Un'altra classe di giunzioni cellulari è rappresentata dalle
giunzioni occludenti (\textit{tight junction}), la cui caratteristica
principale è quella di sigillare lo spazio intercellulare, rendendolo
impermeabile e impedendo a molecole e ioni di attraversare un
tessuto.
L'organizzazione spaziale delle giunzioni occludenti consente inoltre
la creazione di canali selettivamente permeabili per il trasporto
di specifiche molecole, tuttavia ancora non sono chiari i meccanismi
che modulano e regolano il loro funzionamento.
Come nel caso delle giunzioni aderenti questo emerge dall'interazione
tra un certo numero di proteine interagenti.
\begin{figure}[ht]
\centering
\includegraphics{images/tj.pdf}
\caption{Ruolo di \textbf{ZO-1} nelle \emph{giunzioni occludenti}}
\label{fig:tj}
\end{figure}
Diverse proteine attraversano la membrana e dimerizzano con le loro
omologhe appartenenti alla cellula adiacente, tra le quali
\emph{claudina}, \emph{occludina} e diverse proteine appartenenti
alla classe delle \textit{junctional adhesion molecules} (JAM).
Queste proteine di membrana si legano alla proteina \textit{Zona
occludens 1}, ZO-1 che, come mostrato da recenti studi
\cite{Vasileva2020},
potrebbe modulare la formazione delle giunzioni e occuparsi della
trasduzione di segnali meccanici.
Inoltre vi sono evidenze sul ruolo di una terza proteina, la
\textit{cingulina}, nel modulare l'interazione di ZO-1 con il
citoscheletro di actina. Un'ipotesi è che il legame cingulina-ZO-1
possa indurre delle modifiche conformazionali in ZO-1 tali da
consentire un legame diretto con i filamenti di actina.
Anche in questo caso, per comprendere il ruolo della cingulina nella
trasduzione dei segnali meccanici, sembra promettente utilizzare una
tecnica che consenta, durante l'osservazione dell'interazione di due
proteine sottoposte a stress meccanici, di osservare l'eventuale
attaccamento al complesso di una terza proteina. Ad esempio sarebbe
possibile ipotizzare un esperimento in cui allo studio dell'effetto
delle sollecitazioni meccaniche sul legame actina-ZO-1 viene aggiunta
l'osservazione dell'attività della cingulina attraverso microscopia
di fluorescenza.
\section{Manipolazione ottica di molecole biologiche}
\label{sec:ot}
Le pinzette ottiche (o \textit{optical tweezer}, OT) sono strumenti
che sfruttano la \emph{forza di radiazione} esercitata da un fascio
laser gaussiano altamente focalizzato su materiali dielettrici, in
modo da intrappolare e manipolare oggetti microscopici con una
precisione sub-nanometrica.
Questa tecnologia sfrutta il gradiente d'intensità di un fascio
gaussiano focalizzato interagente con particelle dielettriche immerse
in un fluido. L'interazione delle particelle con la radiazione fa si
che queste risentano di una forza di richiamo verso una posizione
di equilibrio in prossimità del fuoco del fascio.
Fin dalla loro ideazione vennero subito messe in luce le potenzialità
di questa tecnica quando applicata alla manipolazione di campioni
biologici.
Arthur Ashkin fu, nel 1986, il primo a realizzare sperimentalmente
delle pinzette ottiche, riuscendo a intrappolare microsfere sintetiche
e batteri\cite{Ashkin:86}. Per questo risultato gli fu conferito il
premio Nobel nel 2018, \emph{``per le pinzette ottiche e le loro
applicazioni ai sistemi biologici''}.
Grazie alle pinzette ottiche è possibile intrappolare solidi
dielettrici di diversa dimensione e natura.
Per ottenere la capacità di manipolare individualmente singole
molecole, come le proteine in una soluzione acquosa a temperatura ambiente,
non è possibile procedere ad un intrappolamento diretto.
Si rende necessario quindi sviluppare protocolli per funzionalizzare
la superficie di sfere dielettriche e legarci le molecole che
intendiamo studiare.
Tipicamente esperimenti di questo tipo vengono realizzati utilizzando
sfere dielettriche di dimensioni micrometriche funzionalizzate legando
covalentemente le proteine o le molecole biologiche di interesse.
In alternativa, vengono legate sulla superficie delle microsfere molecole di
\textit{streptavidina}.
In questo modo è possibile successivamente ottenere il legame delle
microsfere col polimero biologico o la proteina d'interesse, purché essi siano stati
preventivamente biotilinati.
Si sfrutta in questo modo il legame streptavidina-biotina, estremamente stabile nei tempi
tipici di un esperimento di singola molecola (vedi figura \ref{fig:biotin-streptavidin}).
\begin{figure}[ht]
\centering
\includegraphics[width=0.5\linewidth]{images/biotin-streptavidin.pdf}
\caption{Manipolazione di una proteina bersaglio utilizzando una
microsfera intrappolata e il legame biotina-streptavidina.}
\label{fig:biotin-streptavidin}
\end{figure}
Per descrivere quantitativamente il funzionamento delle pinzette
ottiche consideriamo in generale l'effetto dell'interazione tra
una microsfera dielettrica, immersa in una soluzione liquida, e
la radiazione elettromagnetica prodotta da un fascio laser gaussiano
focalizzato.
In generale la forza a cui è soggetta la microsfera interagente
col campo elettromagnetico può essere scomposta in due contributi:
\begin{itemize}
\item La \textbf{forza di \textit{scattering}} o pressione di
radiazione, sempre orientata nella direzione di propagazione
della radiazione e proporzionale alla sua intesità.
\item La \textbf{forza di gradiente}, proporzionale
al gradiente d'intensità della radiazione elettromagnetica.
\end{itemize}
L'origine di questi due contributi e la dipendenza dalle caratteristiche
della microsfera e del liquido utilizzati possono essere derivate
analiticamente dalle equazioni di Maxwell nei limiti del regime
di Rayleigh, ovvero quando le dimensioni della sfera sono molto
inferiori alla lunghezza d'onda della radiazione utilizzata.
In questo limite possiamo considerare il materiale interagente con la
radiazione come un dipolo elettrico puntiforme, associato ad una
polarizzabilità $\alpha$. Il vettore di polarizzazione nel dipolo
puntiforme sarà quindi $\vec{p} = \alpha \vec{E}$, dove il vettore $\vec{E}$
è il campo elettrico che induce la polarizzazione.
La pressione di radiazione sarà quindi proporzionale all'impulso
dei fotoni retrodiffusi per \textit{scattering} Rayleigh.
Nel caso di una microsfera di raggio $a$, indice di rifrazione $n$,
investita da un'onda piana di intensità $I_0$, vettore d'onda $\vec{k}$
e immersa in un fluido con indice di rifrazione $m$, la forza di
\textit{scattering} può essere espressa\cite{HARADA1996529} come:
\begin{equation}
\vec{F}_r = \hat{k} I_0 \frac{8 \pi n k^4 a^6}{3c}
\left(
\frac{(n/m)^2 - 1}{(n/m)^2 + 2}
\right)^2
\end{equation}
Dove $c$ è la velocità della luce nel vuoto.
L'espressione della forza di gradiente può essere ottenuta
dall'interazione lorentziana tra la radiazione e il dipolo puntiforme.
Infatti, se $\vec{p}$ è il vettore di polarizzazione e $\vec{E}, \vec{B}$ sono
i vettori dei campi elettrici e magnetici della radiazione, abbiamo:
$$ \vec{F}_g =
\left(
\vec{p} \cdot \vec{\nabla}
\right)
\vec{E}
+ \frac{d\vec{p}}{dt} \times \vec{B}
$$
Ovvero, una volta sostituito il vettore di polarizzazione:
$$ \vec{F}_g =
\alpha
\left[
\left( \vec{E} \cdot \vec{\nabla} \right) \vec{E}
+ \frac{d\vec{E}}{dt} \times \vec{B}
\right]
$$
E infine, tenendo conto delle \emph{equazioni di Maxwell} e
dell'algebra dei vettori, e mediando su un periodo di oscillazione, otteniamo:
\begin{equation}
\label{dipole_force}
\vec{F_g} =
\alpha
\left[
\frac{1}{2}\nabla E^2
\right]
\end{equation}
Il termine dipendente dal campo magnetico è la derivata di una quantità che cambia
rapidamente (\SI{> 1e14}{\Hz}), che
può tranquillamente essere considerata nulla se confrontata con in
tempi tipici dell'evoluzione meccanica del sistema, e può quindi essere trascurato.
Sostituendo ad
$\alpha$ l'espressione per la polarizzabilità della microsfera
otteniamo:
\begin{equation}
\vec{F}_g =
\frac{2\pi a^3}{c}
\left(
\frac{(n/m)^2 - 1}{(n/m)^2 + 2}
\right)
\nabla I_0(\vec{r})
\end{equation}
Il risultato netto dei due contributi è che la microsfera tenderà ad
occupare una posizione di equilibrio nel punto in cui i due contributi
si cancellano e, se perturbata, risentirà di una forza di richiamo
verso la posizione di equilibrio.
Un risultato qualitativamente identico è dimostrabile nel limite
dell'ottica geometrica, quando la particella è al contrario di
dimensioni molto maggiori alla lunghezza d'onda intermedia.
Il caso intermedio richiede l'uso della più complessa teoria
Lorenz-Mie e il ricorso a soluzioni numeriche, ma l'idea
qualitativa alla base dell'intrappolamento resta valida.
Nel caso generale i requisiti per un intrappolamento efficace sono
quelli di avere una forza di gradiente maggiore di quella di
scattering e una energia cinetica delle particelle intrappolate
sufficientemente bassa (quindi un fluido sufficientemente viscoso).
Per le nostre applicazioni è sufficiente considerare, su un piano
perpendicolare alla direzione di propagazione del fascio, una forza di
richiamo del tipo:
\begin{equation}
\vec{F}_\perp = -k_{\perp}(\vec{x}_{\perp}-\vec{x}_{\perp,eq})
\end{equation}
Dove $\vec{x}_{\perp}$ è la proiezione della posizione della particella
intrappolata sul piano considerato, $\vec{x}_{\perp.eq}$ è la posizione di equilibrio,
corrispondente al centro della fascio in assenza di forze esterne, e $k_{\perp}$ è
la costante elastica relativa alla forza di richiamo sul piano perpendicolare.
Lungo la direzione assiale la particella sarà analogamente confinata ma con un costante
elastica minore e variabile con la posizione. In particolare il suo valore non sarà
simmetrico rispetto al fuoco del fascio quando si considera il contributo aggiuntivo
della forza di scattering.
\begin{figure}[ht]
\centering
\includegraphics[scale=.4]{images/fkx.pdf}
\caption{Effetto netto della forza di radiazione}
\label{fig:fkx}
\end{figure}
Il valore di $k$ per una certa trappola ottica, come vedremo, può
essere determinato attraverso un'apposita procedura di calibrazione
che sfrutta la diffusione della microsfera all'interno della trappola.
Inoltre è necessario considerare l'effetto degli urti con le molecole
della soluzione liquida in cui la sfera è immersa, che hanno i due
seguenti effetti:
\begin{itemize}
\item La presenza di un attrito viscoso, proporzionale alla
velocità relativa della sfera rispetto al fluido
\item La fluttuazione della sfera rispetto alla posizione di
equilibrio (moto browniano).
\end{itemize}
Riuscendo a misurare le fluttuazioni della posizione della sfera intrappolata,
con un sistema come quello descritto in sezione \ref{sec:tweezer}, è possibile
sfruttare la termodinamica statistica per mettere in relazione
lo spettro di queste
con il parametro $k$ della forza elastica di richiamo
(vedi sezione \ref{sec:calibration}).
In questo modo, una volta determinato $k$, è possibile mettere
in relazione il valore delle forze esterne agenti sulla sfera con il
suo spostamento dalla posizione di riposo.
\section{Microscopia di fluorescenza di singola molecola}
\label{sec:fluo}
% come evitare ripetizione "singola(e) molecola(e)"
Le tecniche di microscopia di fluorescenza di singola molecola consentono
di sondare la posizione e i movimenti di singole molecole con risoluzioni
spaziali e temporali che dipendono dalla tipologia di cromofori utilizzati.
Tipicamente, usando cromofori standard, si riesce ad arrivare a risoluzioni
spaziali di decine di nanometri con un tempo di integrazione di circa \SI{10}{\ms}.
Per avvicinarsi a una risoluzione spaziale di \SI{1}{\nm} è necessario aumentare
il tempo di integrazione fino ad almeno \SI{1}{\s}.
In ambito biologico le molecole che vengono osservate con queste
tecniche sono di varia natura, ad esempio proteine o acidi
nucleici. Anche se alcune di queste molecole possono avere una
debole fluorescenza intrinseca, si fa quasi sempre ricorso alla
marcatura con fluorofori, cioè molecole con caratteristiche di
fluorescenza note e elevata resa quantica. In questo modo è
possibile ottenere livelli di segnale maggiori e soprattutto
un'elevata specificità nel rendere rilevabili solo le molecole
che presentano caratteristiche di interesse.
Queste due proprietà sono, come vedremo, molto importanti per riuscire
a rivelare singole molecole biologiche e per
raggiungere una buona precisione di localizzazione.
Le tecniche di microscopia di fluorescenza sono molto flessibili
e spesso non distruttive: consentono di osservare processi biologici
in tempo reale in celle di reazione, colture cellulari e organismi
viventi.
Un esperimento di microscopia di fluorescenza generalmente
comprende due fasi principali:
\begin{itemize}
\item La marcatura delle molecole di interesse, ovvero
l'attuazione di un protocollo per legare specificamente il
fluoroforo scelto alle molecole che si intende visualizzare.
\item La produzione delle immagini, mediante l'illuminazione del
campione alla lunghezza d'onda di eccitazione del fluoroforo
e la raccolta della radiazione emessa alla lunghezza d'onda
di emissione.
\end{itemize}
Per quanto riguarda la marcatura (o \textit{labeling}) delle
molecole esistono svariate strategie e tipologie di fluorofori
utilizzabili. Il fluoroforo può essere legato covalentemente alla
molecola di interesse attraverso apposite reazioni chimiche,
può essere incorporato in un anticorpo, ovvero una proteina
in grado di riconoscere siti specifici di altre molecole e legarvisi
non covalentemente, oppure tramite l'ingegneria genetica è possibile
fornire a delle cellule le istruzioni per sintetizzare e assemblare
proteine contenenti regioni fluorescenti.
I fluorofori utilizzati possono essere piccole molecole organiche,
nanoparticelle realizzate in materiali semiconduttori (come i punti
quantici) oppure sequenze di amminoacidi.
In commercio si trovano numerosi fluorofori operanti in molteplici
regioni dello spettro visibile e con protocolli di marcatura
standardizzati. La scelta del fluoroforo e del protocollo di marcatura
devono tener conto di numerosi fattori, tra i quali: le condizioni
dell'esperimento (in vivo o in vitro), le possibili interferenze col
comportamento del sistema studiato, la compatibilità con le sostanze
chimiche usate in soluzione, la stabilità del fluoroforo stesso e il
suo tempo di vita.
Per la produzione delle immagini esistono due macro-categorie di
tecniche: le microscopie a campo largo (o \textit{wide-field}) e
le microscopie a scansione puntiforme.
Nel primo caso l'intero volume osservato viene illuminato
uniformemente e la radiazione emessa per fluorescenza viene raccolta
e ingrandita da un opportuno sistema ottico che ricostruisce
l'immagine sulla matrice di un sensore CMOS o CCD.
Nel secondo caso l'area di interesse viene suddivisa in un reticolo
tridimensionale di punti e ogni punto viene acquisito sequenzialmente,
illuminando il più piccolo volume circostante possibile e raccogliendo
tutta la radiazione emessa proveniente dal medesimo volume in un
unico punto, coincidente con l'apertura di un fotodiodo o di un
fotomoltiplicatore.
Il principale vantaggio delle tecniche a scansione rispetto a quelle
a campo largo risiede, solitamente, in una più marcata soppressione del
rumore di fondo dovuto all'emissione di fluorescenza fuori dal
piano focale. I microscopi che sfruttano queste tecniche sono infatti
equipaggiati di opportuni accorgimenti per filtrare sia la radiazione
di eccitazione che quella raccolta, in modo da selezionare uno strato
estremamente sottile del volume del campione.
Le dimensioni del volume selezionato per ogni
punto acquisito possono avvicinarsi molto al limite di diffrazione,
in questo modo è possibile visualizzare in maniera estremamente nitida
strutture con dettagli di dimensioni confrontabili con il limite
di diffrazione.
Lo svantaggio principale invece sta nella massima risoluzione
temporale ottenibile: per acquisire un'immagine è necessario
muovere il campione (o il fascio di illuminazione) attraverso
l'intero reticolo e per ogni punto è richiesto un tempo di sosta
adeguato a raccogliere un numero sufficiente di fotoni.
La risoluzione temporale di un microscopio a scansione, quindi,
decresce all'aumentare delle dimensioni dell'area osservata e della
densità di punti acquisita.
La microscopia a campo largo, acquisendo simultaneamente tutto il
campo visivo in una sola volta, consente di raggiungere risoluzioni
temporali molto elevate anche per campioni estesi. La velocità
di acquisizione di un singolo fotogramma è essenzialmente limitata
dalla sensibilità del sensore usato e dalla velocità di trasferimento
dei dati.
Tuttavia, in questo caso, sul sensore si va a sommare all'immagine
proveniente dai fluorofori nel piano focale quella, fuori fuoco,
di tutti gli emettitori che si trovano su piani diversi attraversati
dal fascio.
In campioni con una elevata densità di fluorofori liberi in soluzione
questo effetto viene particolarmente accentuato, con un impatto
negativo sul rapporto segnale/rumore ottenibile e di conseguenza
sulla possibilità di individuare e localizzare singole molecole.
Per ottenere una sensibilità di singola molecola senza sacrificare
la risoluzione temporale sono state sviluppate tecniche che,
manipolando il fascio di eccitazione, consentono di ridurre lo
spessore del volume di campione eccitato, come la microscopia a
riflessione interna totale
(TIRF, \textit{Total Internal Reflection Fluorescence microscopy})
o quella a foglio di luce inclinato
(HILO, \textit{Highly Inclined and Laminated Optical sheet
microscopy}).
Grazie a queste due tecniche è possibile ottenere una sensibilità
di singola molecola con una risoluzione temporale nell'ordine dei
millisecondi, rendendo possibile ad esempio il tracciamento
degli spostamenti di una proteina.
\subsection{TIRF}
La microscopia di fluorescenza a riflessione interna totale (TIRF)
permette di ridurre il rumore dovuto alla fluorescenza fuori fuoco
sfruttando, per l'eccitazione dei fluorofori, un'onda evanescente
in grado di penetrare solo le prime centinaia di nanometri del
campione.
L'onda evanescente viene ottenuta facendo incidere il fascio
di eccitazione all'interfaccia di separazione tra il vetrino
coprioggetti e il campione con un angolo maggiore rispetto
all'angolo critico $\theta_c$ definito dalla \emph{legge di Snell}.
Un fascio che incide sulla superficie di separazione tra due mezzi con
indice di rifrazione $n_i$ e $n_t$, con un angolo rispetto alla normale
$\theta_i$, verrà rifratto a un angolo $\theta_r$ definito dalla relazione:
\begin{multline}
n_i \sin(\theta_i) = n_t \sin(\theta_t) \\
\Rightarrow \sin(\theta_t) = \frac{n_i}{n_t} \sin(\theta_i) \\
\Rightarrow \left\lvert
\frac{n_i}{n_t} \sin(\theta_i)
\right\rvert \leq 1 \\
\Rightarrow \theta_i \leq \arcsin\left(\frac{n_t}{n_i}\right)
\doteq \theta_c
\end{multline}
Quando un'onda elettromagnetica passa da un mezzo con un indice
di rifrazione più grande a uno con indice di rifrazione più piccolo,
e quindi $\theta_c = \arcsin\left(\tfrac{n_t}{n_i}\right)$ è un angolo
reale, si può avere \emph{riflessione interna totale} se l'angolo
di incidenza è superiore a $\theta_c$.
In queste condizioni tutta l'energia dell'onda incidente viene
riflessa nel primo mezzo e non si ha la formazione di un raggio
rifratto nel secondo.
Per studiare le caratteristiche dell'onda elettromagnetica
nel secondo mezzo è necessario fare ricorso alle equazioni di
Maxwell, che impongono condizioni precise sulla continuità
delle componenti normali e trasverse del campo elettrico attraverso
l'interfaccia tra due materiali diversi.
Un'onda elettromagnetica monocromatica piana con vettore d'onda
$\vec{k}$ e frequenza angolare $\omega$ sarà descritta dal campo elettrico
\begin{equation}
\label{eq:e_field}
\vec{E}(\vec{r},t) =
\vec{E}_0 \Re \left(
e^{i(
\vec{k} \cdot \vec{r}-\omega t
)}
\right)
\end{equation}
La direzione del vettore $k$ corrisponde a quella di propagazione
dell'onda elettromagnetica e il suo modulo, il \emph{numero
d'onda}, dipende dall'indice di rifrazione del mezzo attraversato
e dalle frequenze della radiazione:
\begin{equation}
\label{eq:k_vinc}
k = \frac{\omega}{c / n}
\Rightarrow
k^2 = (\vec{k})_x^2 + (\vec{k})_y^2 + (\vec{k})_z^2
= \frac{n^2 \omega^2}{c^2}
\end{equation}
Consideriamo ora un'onda elettromagnetica che incide sulla superficie
di separazione tra due mezzi, con indici di rifrazione $n_1 > n_2$ e
con un angolo di incidenza rispetto alla normale alla superficie
$\theta_i$.
Possiamo descrivere la propagazione attraverso la superficie di
separazione usando un sistema di riferimento dove l'asse $z$ è
parallelo a essa e il vettore d'onda appartiene al piano $xz$.
Avremo quindi $(\vec{k})_y = 0$ e $k^2 =(\vec{k})_x^2 + (\vec{k})_z^2)$.
\begin{figure}[ht]
\centering
\includegraphics[width=\linewidth]{images/ev_wave.pdf}
\caption{Vincoli sui vettori d'onda all'interfaccia di
separazione tra due mezzi. Le semicirconferenze grigie
hanno raggio pari al modulo del vettore d'onda.}
\label{fig:ev_Wave}
\end{figure}
I vettori $\vec{k}$ delle onde incidenti, trasmessa e riflessa,
devono rispettare il vincolo definito dall'equazione \ref{eq:k_vinc}.
Questa condizione è rappresentata graficamente nella figura
\ref{fig:ev_Wave} dalle due semicirconferenze grigie.
Inoltre, per le condizioni di continuità all'interfaccia imposte
dalle equazioni di Maxwell, deve conservarsi la componente
tangenziale alla superficie di separazione del vettore d'onda,
ovvero:
\begin{equation}
(\vec{k}_i)_z = (\vec{k}_r)_z = (\vec{k}_t)_z
\end{equation}
Da queste due condizioni segue che la componente $x$ del vettore
d'onda trasmesso è data da:
\begin{multline}
(\vec{k}_t)_x
= \sqrt{k_t^2-(\vec{k}_t)_z^2}
= \sqrt{k_t^2-(\vec{k}_i)_z^2}
= \sqrt{k_t^2-k_i^2 \sin^2\theta_i}
= \frac{n_1 \omega}{c} \sqrt{
\left(\frac{n_2}{n_1}\right) - \sin^2\theta_i
}\\
= \frac{n_1 \omega}{c}\sqrt{
\sin^2\theta_c - \sin^2\theta_i
}
\end{multline}
Per angoli di incidenza maggiori rispetto a quello critico,
$\theta_i > \theta_c$, il termine sotto radice diventa negativo.
Si ottiene quindi una componente $(\vec{k}_t)_x$ immaginaria pura:
\begin{multline}
\vec{k}_t =
\left(
\frac{n_1 \omega}{c}\sqrt{
\sin^2\theta_i - \sin^2\theta_c
}
\right) i \vec{\hat{x}}
+ \left(
\frac{n_1 \omega}{c} \sin\theta_i
\right) \vec{\hat{z}} = \\
= \alpha i \vec{\hat{x}}
+ \left(
\frac{n_1 \omega}{c} \sin\theta_i
\right) \vec{\hat{z}}
\end{multline}
Possiamo ottenere ora l'espressione del campo elettrico trasmesso
sostituendo $\vec{k_t}$ nell'espressione \ref{eq:e_field}:
\begin{equation}
\vec{E}_t(\vec{r},t)
= \vec{E}_{t,0} \Re \left(
e^{i(
\vec{k}_t \cdot \vec{r}-\omega t
)}
\right)
= \vec{E}_{t,0} \Re \left(
e^{i \left[
\left(n_1\omega\sin\theta_i/c\right) z
-\omega t
\right]}
\right)
e^{-\alpha x}
\end{equation}
Il modulo del campo elettrico trasmesso decade quindi
esponenzialmente all'aumentare della distanza dalla superficie di
separazione.
Possiamo definire la profondità di penetrazione $d_p$ come il valore
di $x$ per il quale l'intensità luminosa si è ridotta di un fattore $1/e$
rispetto al valore iniziale:
\begin{equation}
\label{eq:depth}
d_p
= \frac{1}{2\alpha}
= \frac{c}{2 n_1 \omega} \frac{1}{\sqrt{
\sin^2\theta_i - \sin^2\theta_c
}}
= \frac{\lambda_0}{4 \pi n_1} \frac{1}{\sqrt{
\sin^2\theta_i - \sin^2\theta_c
}}
\end{equation}
Questo valore è importante per capire qual è la profondità massima
di un fluoroforo affinché questo possa scambiare energia con
l'onda evanescente ed emettere fluorescenza.
Se consideriamo gli indici di rifrazione tipici del vetrino
coprioggetti ($n_1 \approx 1.5$) e di una soluzione acquosa
($n_2 \approx 1.3$) otteniamo un angolo critico $\theta_c \approx
\SI{60}{\degree}$.
Considerando una lunghezza d'onda di eccitazione tipicamente usata
in microscopia di fluorescenza, $\lambda_0 = \SI{532}{\nm}$, e
un angolo di incidenza $\theta_i \approx \SI{62}{\degree}$,
otteniamo una profondità di penetrazione $d_p$ di circa \SI{150}{\nm}.
Questi numeri ci danno un'idea del limiti del campo
di applicazione della microscopia TIRF. Quando è necessario
individuare fluorofori che si trovano a una profondità maggiore
di poche centinaia di nanometri rispetto al vetrino coprioggetti
questa tecnica non è più utilizzabile. Inoltre, come recentemente
evidenziato \cite{}, esistono limiti che mettono in discussione
l'applicabilità dell'equazione \ref{eq:depth} in situazioni reali;
questa infatti non tiene conto di alcuni fattori, come la
- seppur piccola - divergenza del fascio laser gaussiano, che non
consente di definire univocamente l'angolo di incidenza.
Le caratteristiche del sistema ottico e variazioni di indice di
rifrazione all'interno del campione possono, in generale, fare sì
che una considerevole parte di radiazione diretta (non evanescente)
attraversi il campione. In generale non è possibile conoscere con
certezza il volume illuminato a priori, ma è necessario eseguire
un qualche tipo di calibrazione.
Per ottimizzare il rapporto segnale/rumore quando si deve lavorare
a profondità maggiori è stata sviluppata un'altra tecnica, la HILO,
che sfrutta le proprietà della rifrazione per comprimere lo spessore
di campione illuminato.
\subsection{HILO}
La microscopia a fogli di luce altamente inclinati
(\textit{Highly Inclined Laminated Optical Sheet microscopy}, HILO)
permette, analogamente alla TIRF, di illuminare uno spessore
ridotto del campione.
In questo caso, come mostrato in figura \ref{fig:hilo}, si sfrutta
un fascio di illuminazione obliquo rispetto alla superficie del
campione. Questo fascio obliquo interseca sempre il centro del
sistema ottico, e quindi la parte del campione a fuoco (ovvero posta
in un piano coniugato del sensore CMOS o CCD),
ma eccitando esclusivamente i fluorofori in uno spessore ridotto
del campione ($d$), attorno al piano focale, a una quota sulla superficie
dipendente dallo spostamento orizzontale del fascio di eccitazione ($\Delta x$).
\begin{figure}[ht]
\centering
\includegraphics[width=\linewidth]{images/hilo.pdf}
\caption{Schema di illuminazione HILO. Effetto
della rifrazione sulla dimensione del fascio (a sinistra) e
relazione tra quota del campione illuminata e spostamento
orizzontale del fascio (a destra).}
\label{fig:hilo}
\end{figure}
Lo spessore verticale illuminato è tanto più piccolo quanto
maggiore è l'angolo di incidenza del fascio e tanto minore è
il diametro del fascio D (e quindi il campo visivo illuminato).
Nel caso dell'ottica geometrica lo spessore $d$ è dato dalla
relazione:
\begin{equation}
d = \frac{D}{\tan\theta_t}
\end{equation}
dove D è il diametro del fascio sul piano di incidenza e $\theta_t$ è l'angolo
del fascio rifratto rispetto alla normale.
Lo spessore $d$, quindi, potrebbe essere reso piccolo a piacere avvicinando l'angolo
di incidenza all'angolo critico. Tuttavia i fasci luminosi utilizzati,
tipicamente generati da un \textit{laser}, sono di tipo gaussiano e
non si propagano secondo le leggi dell'ottica geometrica.
In particolare il raggio minimo del fascio (\textit{waist}) e
la sua divergenza sono inversamente correlati. Se $\$w_0$ è il minimo
valore del raggio del fascio durante la sua propagazione e $z$ è
la distanza, lungo la direzione di propagazione, dal punto di minimo,
l'evoluzione del raggio di un fascio gaussiano seguirà l'andamento:
\begin{equation}
\label{eq:waist}
w(z)
= w_0 \sqrt{1 + \left(
\frac{z}{\pi w_0^2 / \lambda}
\right)^2}
= w_0 \sqrt{1 + \left(
\frac{z}{z_R}
\right)^2}
\end{equation}
Il parametro $z_R$ introdotto nell'equazione \ref{eq:waist} rappresenta
una proprietà importante dei fasci gaussiani, ovvero il \textit{parametro
confocale}. A una distanza $z_R$ dal \textit{waist} lungo la direzione
di propagazione il diametro del fascio risulta aumentato di un fattore
$\sqrt{2}$, per poi continuare a crescere secondo la relazione \ref{eq:waist}.
Quindi, maggiore è la lunghezza $z_R$ minore sarà la divergenza. Questa lunghezza,
però, è inversamente proporzionale al diametro minimo del fascio, come si può
vedere confrontando il secondo e il terzo membro dell'equazione \ref{eq:waist}.
Questo vuol dire che è possibile ottenere un fascio gaussiano con un diametro più
piccolo solo aumentandone la divergenza.
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Nel caso della diffrazione di un fascio gaussiano, passando da un mezzo
con indice di rifrazione $\theta_i$ a uno con indice di rifrazione $\theta_r$,
le dimensioni del \textit{waist} nella direzione perpendicolare alla
superficie d'incidenza vengono compresse di un fattore
$\cos\theta_i / \cos\theta_r$. La divergenza del fascio sarà però determinata
dal nuovo fattore confocale
$z_R' = \pi (w_0')^2 / \lambda = \pi (w_0 \cos\theta_i / \cos\theta_r)^2 / \lambda$
(vedi figura \ref{fig:gaussian_hilo}).
\begin{figure}[ht]
\centering
\includegraphics[width=0.5\linewidth]{gaussian_hilo.pdf}
\caption{Compressione di un fascio gaussiano in seguito a rifrazione.}
\label{fig:gaussian_hilo}
\end{figure}
Possiamo quindi affermare che viene effettivamente illuminato uno
spessore di campione $\delta x = 2 w_0' = 2 w_0 \cos\theta_i / \cos\theta_r$
attraverso una lunghezza trasversale
$\delta z = 2 z_R' =
2 \pi (w_0 \cos\theta_i / \cos\theta_r)^2 / \lambda$
Questa tecnica, a differenza della TIRF, permette di effettuare una
scansione in profondità del campione. Infatti, in virtù della
geometria del sistema d'illuminazione, se il piano focale viene
modificato allontanando o avvicinando il campione
dall'obiettivo, la posizione in cui il fascio inclinato incide
sul vetrino risulterà traslata orizzontalmente e, di conseguenza, il
fascio di illuminazione attraverserà il centro del campione in
corrispondenza del piano focale, come mostrato in figura \ref{fig:hilo_focus}
\begin{figure}[ht]
\centering
\includegraphics[width=0.5\linewidth]{hilo_focus.pdf}
\caption{Illuminazione HILO e selezione del piano focale.}
\label{fig:hilo_focus.pdf}
\end{figure}