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\chapter{Introduzione}
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Gli stimoli meccanici rivestono nell'ambito dei sistemi biologici un
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ruolo importante nel determinare il corretto funzionamento di cellule,
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tessuti e organismi complessi.
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Mentre tradizionalmente la biologia si è occupata di studiare come
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processi cellulari e intercellulari fossero regolati dalle reazioni
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biochimiche e dalla genetica, il ruolo degli stimoli meccanici è stato a
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lungo ritenuto marginale nella descrizione di questi processi.
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Lo sviluppo di tecniche sempre più avanzate e precise per la
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visualizzazione e la manipolazione di molecole all'interno di campioni
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biologici ha iniziato a mutare questa concezione: oggi possiamo
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indagare nel dettaglio il funzionamento dei motori molecolari
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all'interno delle nostre cellule o misurare come variazioni nella
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tensione applicata a un polimero possano indurre una riorganizzazione
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strutturale nello stesso e cambiarne le proprietà biochimiche.
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Per molti processi biologici il ruolo della forza è fondamentale,
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ad esempio nei complessi proteici che legano tra di loro le cellule
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in un tessuto, le \emph{giunzioni cellulari}.
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Queste si comportano come complesse macchine in grado di elaborare
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stimoli di tipo biochimico e meccanico, comunicando e interferendo
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con le funzioni del resto della cellula.
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Esistono diversi tipi di giunzioni cellulari, responsabili di
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specifiche funzioni e caratterizzate dalla reciproca interazione di
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diversi tipi di proteine. La dinamica della loro interazione viene
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modificata e modulata dalle sollecitazioni meccaniche esterne,
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permettendo alle giunzioni di comportarsi come \emph{trasduttori}
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di segnali meccanici.
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Diversi metodi sono stati proposti e realizzati sperimentalmente
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per osservare l'attività di meccano-trasduzione nei sistemi
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biologici \cite{Muhamed2017,Arbore2019}, sfruttando tecniche sia \textit{in vivo} che
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\textit{in vitro}, osservando sia gli effetti macroscopici che
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le interazioni tra singole molecole.
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Nonostante ciò, per quanto riguarda le giunzioni cellulari, siamo
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ancora lontani da una descrizione soddisfacente, sia da un punto
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di vista qualitativo che quantitativo, dei meccanismi e delle
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interazioni coinvolte.
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Raggiungere una migliore comprensione riguardo al ruolo e al
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funzionamento della meccano-trasduzione nelle giunzioni cellulari
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rappresenta un terreno fertile e un forte stimolo per la ricerca
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di base interdisciplinare, spingendo scienziati con formazioni diverse
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ad unire le loro competenze e sviluppare tecniche complementari, in
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modo da acquisire una visione sempre più globale su fenomeni
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estremamente complessi, che coinvolgono simultaneamente processi
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meccanici, termodinamici e biochimici.
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Lo scopo di questo lavoro di tesi è, sviluppare, in gran parte
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\textit{ex-novo}, un apparato sperimentale per lo studio della
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meccano-trasduzione in contesti complessi come quello delle giunzioni
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cellulari, basato sulla manipolazione ottica di due proteine
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interagenti e il \textit{tracking} simultaneo, tramite microscopia di
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fluorescenza, di altre singole biomolecole nei pressi del sito di
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interazione.
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La manipolazione tramite pinzette ottiche rappresenta infatti una
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strada molto promettente per lo studio, anche quantitativo, di
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effetti meccano-biologici, grazie alla possibilità di ottenere una
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precisione di posizionamento nanometrica e di applicare alle molecole
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un ampio intervallo di forze nell'ordine dei piconewton e dei
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femtonewton.
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Le pinzette ottiche permettono di sondare il comportamento di
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complessi proteici sottoponendo due molecole interagenti a stress
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meccanici controllati e andando a osservare come la dinamica delle
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interazioni dipenda dalle forze esterne.
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Questo tipo di esperimenti si riconduce alle
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\emph{spettroscopie di forza},
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che in generale vengono realizzate utilizzando diverse tecniche, come
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la microscopia a forza atomica, le onde acustiche o le pinzette
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ottiche.
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I brevissimi tempi di risposta ottenibili utilizzando queste ultime,
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inferiori al millisecondo, hanno fatto si che le pinzette ottiche
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fossero applicate con successo allo studio di sistemi interagenti con
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affinità molto deboli o rapide modifiche conformazionali, come i
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motori molecolari \cite{Capitanio2012}.
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L'apparato sperimentale descritto in questo lavoro consiste
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sostanzialmente in una ricostruzione di quello utilizzato in
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\cite{Capitanio2012}
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per lo studio dei motori molecolari per quanto riguarda la componente
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di spettroscopia di forza, integrato con un sistema di microscopia di
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fluorescenza che consenta di osservare simultaneamente la dinamica di
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singole molecole interagenti con le proteine intrappolate.
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Infatti, fino a ora il principale limite di questi esperimenti è
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stato quello di produrre informazioni dinamiche
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esclusivamente sui due componenti interagenti selezionati per la
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spettroscopia di forza, trascurando ogni altra possibile interazione.
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Se in diversi scenari questo è più che sufficiente, in alcuni
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sistemi biologici, questo approccio mostra evidenti limiti nello
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studio di una complessa rete di interazioni, come quella delle
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giunzioni cellulari.
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Un apparato con queste caratteristiche dovrebbe consentire,
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durante un esperimento di spettroscopia di forza, di registrare
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simultaneamente sia la risposta meccanica delle due proteine
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immobilizzate, sia l'eventuale interazione con altri fattori
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opportunamente marcati presenti nella soluzione usata per
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l'esperimento.
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L'ostacolo principale al raggiungimento di questo risultato è dato
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dalla difficoltà di visualizzare, tramite microscopia ottica,
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l'attività di una singola molecola fluorescente sopra un fondo di
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fluorofori liberi in soluzione.
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Una soluzione tipicamente adottata prevede l'uso di schemi di
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illuminazione come la riflessione interna totale
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(TIRF, \textit{Total Internal Reflection Fluorescence microscopy})
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o i fogli di luce inclinati
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(HILO, \textit{Highly Inclined and Laminated Optical sheet
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microscopy}),
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in modo da ridurre il volume di campione eccitato e quindi l'emissione
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di fluorescenza di fondo.
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Questi schemi di illuminazione però richiedono requisiti molto
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stringenti.
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Ad esempio per poter utilizzare la TIRF, come approfondito in sezione
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\ref{sec:fluo} è necessario che il volume osservato sia nelle
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immediate vicinanze (poche centinaia di nanometri) della superficie del vetrino
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coprioggetti usato per la preparazione del campione,
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condizione che è impossibile realizzare negli esperimenti di
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spettroscopia di forza, dove le proteine vengono funzionalizzate su
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sfere di silice di dimensioni micrometriche.
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In questo caso infatti il volume di campione
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dove si trovano le proteine interagenti è posto a una quota significativa
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rispetto alla zona illuminata nelle vicinanze del vetrino coprioggetti.
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Scopo dell'apparato sperimentale sarà anche studiare la possibilità di
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superare questo limite usando la sfera dielettrica come risuonatore
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o focheggiatore ottico, e quindi come strumento in grado di trasferire la radiazione
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di eccitazione dall'immediata prossimità del vetrino coprioggetti ai
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fluorofori presenti in prossimità del sito di interazione.
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In questo modo il segnale proveniente da molecole fuori fuoco,
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lontane dalla microsfera, sarebbe efficacemente soppresso.
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Nelle prossime sezioni è possibile trovare una trattazione più
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approfondita degli argomenti introdotti, in particolare nella sezione
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\ref{sec:giunzioni} vengono introdotte due importanti tipologie di
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giunzioni cellulari particolarmente interessanti per studio con un
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sistema combinato come quello qui descritto.\\
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Nella sezione \ref{sec:ot} vengono trattate in maniera più
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approfondita le pinzette ottiche e la loro applicazione agli
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esperimenti di spettroscopia di forza.\\
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Nella sezione \ref{sec:fluo} vengono introdotti i principali limiti
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della microscopia di fluorescenza e le soluzioni proposte per il loro
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superamento.
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Nel capitolo \ref{cap:setup} vengono descritte nel dettaglio le
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caratteristiche e le proprietà specifiche dell'apparato sperimentale
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realizzato.
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Nel capitolo \ref{cap:methods} vengono descritti i metodi utilizzati
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per validare il funzionamento dell'apparato sperimentale,
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quantificarne i parametri di funzionamento e realizzare misure su
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campioni biologici.
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Nel capitolo \ref{cap:results} sono analizzati i dati prodotti durante
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le operazioni di validazione dell'apparato sperimentale e delle
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procedure di misura per valutare le prestazioni ottenibili e la loro
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adeguatezza agli esperimenti ipotizzati.
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% Introduction on the importance of mechanotransduction
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% between
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\section{Giunzioni cellulari}
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\label{sec:giunzioni}
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Le giunzioni cellulari svolgono un ruolo fondamentale per l'esistenza
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stessa degli organismi multicellulari.
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Esse sono infatti responsabili della capacità delle cellule di
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connettersi l'una con l'altra e di organizzarsi per formare tessuti e
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organi con funzioni specifiche.
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Le funzioni delle giunzioni cellulari vanno ben oltre quelle di una
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passiva struttura di raccordo: esse sono responsabili, ad esempio,
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di veicolare informazioni e sostanze tra una cellula e l'altra,
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guidare la loro proliferazione o migrazione, mantenere la stabilità
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dei tessuti o avviarne la riparazione quando necessario.
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\begin{figure}[ht]
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\centering
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\includegraphics[width=0.5\linewidth]{images/adjunc.pdf}
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\caption{Sequenza di cellule connesse da \emph{giunzioni aderenti}
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(sopra) e dettaglio di una giunzione aderente, con indicazione
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delle principali proteine coinvolte (sotto)}
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\label{fig:ad_jun}
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\end{figure}
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Le giunzioni cellulari possono connettersi direttamente a strutture
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interne della cellula (come il citoscheletro) e si formano
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dall'auto-assemblamento di un grande numero di proteine differenti.
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Per loro natura attraversano la membrana cellulare andando a formare
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legami con strutture analoghe presenti in cellule adiacenti o con
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strutture intermedie di supporto, come la matrice extra-cellulare.
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Esistono diversi tipi di giunzioni che svolgono funzioni specifiche.
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Un tipo di giunzione molto comune nei tessuti epiteliali e
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endoteliali è la \emph{giunzione aderente}, rappresentata in modo
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schematico in figura \ref{fig:ad_jun}.
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Nelle giunzioni aderenti la proteina che direttamente ancora il
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complesso alla membrana plasmatica è la \emph{caderina}.
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Questa è una proteina trans-membrana costituita da un dominio di coda
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citoplasmatico e un dominio di testa esterno alla membrana cellulare.
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Il dominio extra-membrana è in grado di dimerizzare con domini
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analoghi presenti in cellule adiacenti, formando la giunzione.
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Il dominio intra-membrana permette di stabilire un collegamento
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diretto tra la giunzione cellulare e il citoscheletro di actina,
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grazie al legame con una classe di proteine, le \emph{catenine},
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in grado di legarsi sia con la coda della caderina che con i filamenti
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di actina del citoscheletro.
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Oltre a questa connessione diretta esistono altre proteine che
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mantengono una connessione indiretta, legando ad esempio le catenine
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con il citoscheletro. È stato scoperto
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\cite{Goldmann2016,Dumbauld2014} che le proteine
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\emph{vinculina} e \emph{$\alpha$-actinina} svolgono questa attività.
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Sebbene la funzione di questi collegamenti indiretti non sia stata
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ancora del tutto compresa, è stato dimostrato che la presenza
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delle proteine responsabili di tali collegamenti è fondamentale per il corretto sviluppo
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dei tessuti.
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Esperimenti su colture cellulari in cui il gene che codifica l'espressione
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della vinculina è stato rimosso suggeriscono come, oltre ad una
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riduzione generale dell'adesione tra cellule, si perdano alcune funzioni
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di regolazione
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e modulazione dell'attività delle giunzioni.
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La vinculina, quindi, così come altre proteine secondarie, potrebbe
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avere un ruolo nel modulare i meccanismi di adesione e svolgere un
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ruolo nei processi di meccano-trasduzione.
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La possibilità di realizzare esperimenti di spettroscopia di forza in
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cui è possibile tenere traccia dell'attività di una o più proteine
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secondarie apre la strada verso una maggiore comprensione del loro
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ruolo.
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Lo stato attuale delle conoscenze sulla rete di interazioni che
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governa e regola il funzionamento delle giunzioni aderenti è riportato
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schematicamente in appendice \ref{app:junctions}, sotto forma di
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diagramma delle vie di segnalazione.
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\begin{figure}[ht]
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\centering
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\includegraphics{images/aj.pdf}
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\caption{Ruolo di \textbf{caderina} e catenine nelle
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\textit{giunzioni aderenti}}
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\label{fig:aj}
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\end{figure}
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\vspace{1em}
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Un'altra classe di giunzioni cellulari è rappresentata dalle
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giunzioni occludenti (\textit{tight junction}), la cui caratteristica
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principale è quella di sigillare lo spazio intercellulare, rendendolo
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impermeabile e impedendo a molecole e ioni di attraversare un
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tessuto.
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L'organizzazione spaziale delle giunzioni occludenti consente inoltre
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la creazione di canali selettivamente permeabili per il trasporto
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di specifiche molecole, tuttavia ancora non sono chiari i meccanismi
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che modulano e regolano il loro funzionamento.
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Come nel caso delle giunzioni aderenti questo emerge dall'interazione
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tra un certo numero di proteine interagenti.
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\begin{figure}[ht]
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\centering
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\includegraphics{images/tj.pdf}
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\caption{Ruolo di \textbf{ZO-1} nelle \emph{giunzioni occludenti}}
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\label{fig:tj}
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\end{figure}
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Diverse proteine attraversano la membrana e dimerizzano con le loro
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omologhe appartenenti alla cellula adiacente, tra le quali
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\emph{claudina}, \emph{occludina} e diverse proteine appartenenti
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alla classe delle \textit{junctional adhesion molecules} (JAM).
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Queste proteine di membrana si legano alla proteina \textit{Zona
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occludens 1}, ZO-1 che, come mostrato da recenti studi
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\cite{Vasileva2020},
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potrebbe modulare la formazione delle giunzioni e occuparsi della
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trasduzione di segnali meccanici.
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Inoltre vi sono evidenze sul ruolo di una terza proteina, la
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\textit{cingulina}, nel modulare l'interazione di ZO-1 con il
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citoscheletro di actina. Un'ipotesi è che il legame cingulina-ZO-1
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possa indurre delle modifiche conformazionali in ZO-1 tali da
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consentire un legame diretto con i filamenti di actina.
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Anche in questo caso, per comprendere il ruolo della cingulina nella
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trasduzione dei segnali meccanici, sembra promettente utilizzare una
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tecnica che consenta, durante l'osservazione dell'interazione di due
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proteine sottoposte a stress meccanici, di osservare l'eventuale
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attaccamento al complesso di una terza proteina. Ad esempio sarebbe
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possibile ipotizzare un esperimento in cui allo studio dell'effetto
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delle sollecitazioni meccaniche sul legame actina-ZO-1 viene aggiunta
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l'osservazione dell'attività della cingulina attraverso microscopia
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di fluorescenza.
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\section{Manipolazione ottica di molecole biologiche}
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\label{sec:ot}
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Le pinzette ottiche (o \textit{optical tweezer}, OT) sono strumenti
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che sfruttano la \emph{forza di radiazione} esercitata da un fascio
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laser gaussiano altamente focalizzato su materiali dielettrici, in
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modo da intrappolare e manipolare oggetti microscopici con una
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precisione sub-nanometrica.
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Questa tecnologia sfrutta il gradiente d'intensità di un fascio
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gaussiano focalizzato interagente con particelle dielettriche immerse
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in un fluido. L'interazione delle particelle con la radiazione fa si
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che queste risentano di una forza di richiamo verso una posizione
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di equilibrio in prossimità del fuoco del fascio.
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Fin dalla loro ideazione vennero subito messe in luce le potenzialità
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di questa tecnica quando applicata alla manipolazione di campioni
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biologici.
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Arthur Ashkin fu, nel 1986, il primo a realizzare sperimentalmente
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delle pinzette ottiche, riuscendo a intrappolare microsfere sintetiche
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e batteri\cite{Ashkin:86}. Per questo risultato gli fu conferito il
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premio Nobel nel 2018, \emph{``per le pinzette ottiche e le loro
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applicazioni ai sistemi biologici''}.
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Grazie alle pinzette ottiche è possibile intrappolare solidi
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dielettrici di diversa dimensione e natura.
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Per ottenere la capacità di manipolare individualmente singole
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molecole, come le proteine in una soluzione acquosa a temperatura ambiente,
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non è possibile procedere ad un intrappolamento diretto.
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Si rende necessario quindi sviluppare protocolli per funzionalizzare
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la superficie di sfere dielettriche e legarci le molecole che
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intendiamo studiare.
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Tipicamente esperimenti di questo tipo vengono realizzati utilizzando
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sfere dielettriche di dimensioni micrometriche funzionalizzate legando
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covalentemente le proteine o le molecole biologiche di interesse.
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In alternativa, vengono legate sulla superficie delle microsfere molecole di
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\textit{streptavidina}.
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In questo modo è possibile successivamente ottenere il legame delle
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microsfere col polimero biologico o la proteina d'interesse, purché essi siano stati
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preventivamente biotilinati.
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Si sfrutta in questo modo il legame streptavidina-biotina, estremamente stabile nei tempi
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tipici di un esperimento di singola molecola (vedi figura \ref{fig:biotin-streptavidin}).
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\begin{figure}[ht]
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\centering
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\includegraphics[width=0.5\linewidth]{images/biotin-streptavidin.pdf}
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\caption{Manipolazione di una proteina bersaglio utilizzando una
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microsfera intrappolata e il legame biotina-streptavidina.}
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\label{fig:biotin-streptavidin}
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\end{figure}
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Per descrivere quantitativamente il funzionamento delle pinzette
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ottiche consideriamo in generale l'effetto dell'interazione tra
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una microsfera dielettrica, immersa in una soluzione liquida, e
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la radiazione elettromagnetica prodotta da un fascio laser gaussiano
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focalizzato.
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In generale la forza a cui è soggetta la microsfera interagente
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col campo elettromagnetico può essere scomposta in due contributi:
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\begin{itemize}
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\item La \textbf{forza di \textit{scattering}} o pressione di
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radiazione, sempre orientata nella direzione di propagazione
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della radiazione e proporzionale alla sua intesità.
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\item La \textbf{forza di gradiente}, proporzionale
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al gradiente d'intensità della radiazione elettromagnetica.
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\end{itemize}
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L'origine di questi due contributi e la dipendenza dalle caratteristiche
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della microsfera e del liquido utilizzati possono essere derivate
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analiticamente dalle equazioni di Maxwell nei limiti del regime
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di Rayleigh, ovvero quando le dimensioni della sfera sono molto
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inferiori alla lunghezza d'onda della radiazione utilizzata.
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In questo limite possiamo considerare il materiale interagente con la
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radiazione come un dipolo elettrico puntiforme, associato ad una
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polarizzabilità $\alpha$. Il vettore di polarizzazione nel dipolo
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puntiforme sarà quindi $\vec{p} = \alpha \vec{E}$, dove il vettore $\vec{E}$
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è il campo elettrico che induce la polarizzazione.
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La pressione di radiazione sarà quindi proporzionale all'impulso
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dei fotoni retrodiffusi per \textit{scattering} Rayleigh.
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Nel caso di una microsfera di raggio $a$, indice di rifrazione $n$,
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investita da un'onda piana di intensità $I_0$, vettore d'onda $\vec{k}$
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e immersa in un fluido con indice di rifrazione $m$, la forza di
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\textit{scattering} può essere espressa\cite{HARADA1996529} come:
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\begin{equation}
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\vec{F}_r = \hat{k} I_0 \frac{8 \pi n k^4 a^6}{3c}
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\left(
|
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\frac{(n/m)^2 - 1}{(n/m)^2 + 2}
|
|
\right)^2
|
|
\end{equation}
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Dove $c$ è la velocità della luce nel vuoto.
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L'espressione della forza di gradiente può essere ottenuta
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dall'interazione lorentziana tra la radiazione e il dipolo puntiforme.
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Infatti, se $\vec{p}$ è il vettore di polarizzazione e $\vec{E}, \vec{B}$ sono
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i vettori dei campi elettrici e magnetici della radiazione, abbiamo:
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$$ \vec{F}_g =
|
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\left(
|
|
\vec{p} \cdot \vec{\nabla}
|
|
\right)
|
|
\vec{E}
|
|
+ \frac{d\vec{p}}{dt} \times \vec{B}
|
|
$$
|
|
|
|
Ovvero, una volta sostituito il vettore di polarizzazione:
|
|
|
|
$$ \vec{F}_g =
|
|
\alpha
|
|
\left[
|
|
\left( \vec{E} \cdot \vec{\nabla} \right) \vec{E}
|
|
+ \frac{d\vec{E}}{dt} \times \vec{B}
|
|
\right]
|
|
$$
|
|
|
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E infine, tenendo conto delle \emph{equazioni di Maxwell} e
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dell'algebra dei vettori, e mediando su un periodo di oscillazione, otteniamo:
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\begin{equation}
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\label{dipole_force}
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|
\vec{F_g} =
|
|
\alpha
|
|
\left[
|
|
\frac{1}{2}\nabla E^2
|
|
\right]
|
|
\end{equation}
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Il termine dipendente dal campo magnetico è la derivata di una quantità che cambia
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rapidamente (\SI{> 1e14}{\Hz}), che
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può tranquillamente essere considerata nulla se confrontata con in
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tempi tipici dell'evoluzione meccanica del sistema, e può quindi essere trascurato.
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Sostituendo ad
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$\alpha$ l'espressione per la polarizzabilità della microsfera
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otteniamo:
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\begin{equation}
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\vec{F}_g =
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\frac{2\pi a^3}{c}
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\left(
|
|
\frac{(n/m)^2 - 1}{(n/m)^2 + 2}
|
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\right)
|
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\nabla I_0(\vec{r})
|
|
\end{equation}
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Il risultato netto dei due contributi è che la microsfera tenderà ad
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occupare una posizione di equilibrio nel punto in cui i due contributi
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si cancellano e, se perturbata, risentirà di una forza di richiamo
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verso la posizione di equilibrio.
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Un risultato qualitativamente identico è dimostrabile nel limite
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dell'ottica geometrica, quando la particella è al contrario di
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dimensioni molto maggiori alla lunghezza d'onda intermedia.
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Il caso intermedio richiede l'uso della più complessa teoria
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Lorenz-Mie e il ricorso a soluzioni numeriche, ma l'idea
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qualitativa alla base dell'intrappolamento resta valida.
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Nel caso generale i requisiti per un intrappolamento efficace sono
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quelli di avere una forza di gradiente maggiore di quella di
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scattering e una energia cinetica delle particelle intrappolate
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sufficientemente bassa (quindi un fluido sufficientemente viscoso).
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Per le nostre applicazioni è sufficiente considerare, su un piano
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perpendicolare alla direzione di propagazione del fascio, una forza di
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richiamo del tipo:
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\begin{equation}
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\vec{F}_\perp = -k_{\perp}(\vec{x}_{\perp}-\vec{x}_{\perp,eq})
|
|
\end{equation}
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|
Dove $\vec{x}_{\perp}$ è la proiezione della posizione della particella
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intrappolata sul piano considerato, $\vec{x}_{\perp.eq}$ è la posizione di equilibrio,
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corrispondente al centro della fascio in assenza di forze esterne, e $k_{\perp}$ è
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la costante elastica relativa alla forza di richiamo sul piano perpendicolare.
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Lungo la direzione assiale la particella sarà analogamente confinata ma con un costante
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elastica minore e variabile con la posizione. In particolare il suo valore non sarà
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simmetrico rispetto al fuoco del fascio quando si considera il contributo aggiuntivo
|
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della forza di scattering.
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\begin{figure}[ht]
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|
\centering
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|
\includegraphics[scale=.4]{images/fkx.pdf}
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\caption{Effetto netto della forza di radiazione}
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\label{fig:fkx}
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\end{figure}
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Il valore di $k$ per una certa trappola ottica, come vedremo, può
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essere determinato attraverso un'apposita procedura di calibrazione
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che sfrutta la diffusione della microsfera all'interno della trappola.
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Inoltre è necessario considerare l'effetto degli urti con le molecole
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della soluzione liquida in cui la sfera è immersa, che hanno i due
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seguenti effetti:
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\begin{itemize}
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|
\item La presenza di un attrito viscoso, proporzionale alla
|
|
velocità relativa della sfera rispetto al fluido
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\item La fluttuazione della sfera rispetto alla posizione di
|
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equilibrio (moto browniano).
|
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\end{itemize}
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Riuscendo a misurare le fluttuazioni della posizione della sfera intrappolata,
|
|
con un sistema come quello descritto in sezione \ref{sec:tweezer}, è possibile
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sfruttare la termodinamica statistica per mettere in relazione
|
|
lo spettro di queste
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con il parametro $k$ della forza elastica di richiamo
|
|
(vedi sezione \ref{sec:calibration}).
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|
In questo modo, una volta determinato $k$, è possibile mettere
|
|
in relazione il valore delle forze esterne agenti sulla sfera con il
|
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suo spostamento dalla posizione di riposo.
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|
\section{Microscopia di fluorescenza di singola molecola}
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\label{sec:fluo}
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|
% come evitare ripetizione "singola(e) molecola(e)"
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Le tecniche di microscopia di fluorescenza di singola molecola consentono
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di sondare la posizione e i movimenti di singole molecole con risoluzioni
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spaziali e temporali che dipendono dalla tipologia di cromofori utilizzati.
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Tipicamente, usando cromofori standard, si riesce ad arrivare a risoluzioni
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spaziali di decine di nanometri con un tempo di integrazione di circa \SI{10}{\ms}.
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Per avvicinarsi a una risoluzione spaziale di \SI{1}{\nm} è necessario aumentare
|
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il tempo di integrazione fino ad almeno \SI{1}{\s}.
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In ambito biologico le molecole che vengono osservate con queste
|
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tecniche sono di varia natura, ad esempio proteine o acidi
|
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nucleici. Anche se alcune di queste molecole possono avere una
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debole fluorescenza intrinseca, si fa quasi sempre ricorso alla
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marcatura con fluorofori, cioè molecole con caratteristiche di
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fluorescenza note e elevata resa quantica. In questo modo è
|
|
possibile ottenere livelli di segnale maggiori e soprattutto
|
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un'elevata specificità nel rendere rilevabili solo le molecole
|
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che presentano caratteristiche di interesse.
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Queste due proprietà sono, come vedremo, molto importanti per riuscire
|
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a rivelare singole molecole biologiche e per
|
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raggiungere una buona precisione di localizzazione.
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Le tecniche di microscopia di fluorescenza sono molto flessibili
|
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e spesso non distruttive: consentono di osservare processi biologici
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|
in tempo reale in celle di reazione, colture cellulari e organismi
|
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viventi.
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|
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Un esperimento di microscopia di fluorescenza generalmente
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comprende due fasi principali:
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\begin{itemize}
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\item La marcatura delle molecole di interesse, ovvero
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|
l'attuazione di un protocollo per legare specificamente il
|
|
fluoroforo scelto alle molecole che si intende visualizzare.
|
|
\item La produzione delle immagini, mediante l'illuminazione del
|
|
campione alla lunghezza d'onda di eccitazione del fluoroforo
|
|
e la raccolta della radiazione emessa alla lunghezza d'onda
|
|
di emissione.
|
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\end{itemize}
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|
Per quanto riguarda la marcatura (o \textit{labeling}) delle
|
|
molecole esistono svariate strategie e tipologie di fluorofori
|
|
utilizzabili. Il fluoroforo può essere legato covalentemente alla
|
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molecola di interesse attraverso apposite reazioni chimiche,
|
|
può essere incorporato in un anticorpo, ovvero una proteina
|
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in grado di riconoscere siti specifici di altre molecole e legarvisi
|
|
non covalentemente, oppure tramite l'ingegneria genetica è possibile
|
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fornire a delle cellule le istruzioni per sintetizzare e assemblare
|
|
proteine contenenti regioni fluorescenti.
|
|
I fluorofori utilizzati possono essere piccole molecole organiche,
|
|
nanoparticelle realizzate in materiali semiconduttori (come i punti
|
|
quantici) oppure sequenze di amminoacidi.
|
|
In commercio si trovano numerosi fluorofori operanti in molteplici
|
|
regioni dello spettro visibile e con protocolli di marcatura
|
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standardizzati. La scelta del fluoroforo e del protocollo di marcatura
|
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devono tener conto di numerosi fattori, tra i quali: le condizioni
|
|
dell'esperimento (in vivo o in vitro), le possibili interferenze col
|
|
comportamento del sistema studiato, la compatibilità con le sostanze
|
|
chimiche usate in soluzione, la stabilità del fluoroforo stesso e il
|
|
suo tempo di vita.
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|
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|
Per la produzione delle immagini esistono due macro-categorie di
|
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tecniche: le microscopie a campo largo (o \textit{wide-field}) e
|
|
le microscopie a scansione puntiforme.
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Nel primo caso l'intero volume osservato viene illuminato
|
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uniformemente e la radiazione emessa per fluorescenza viene raccolta
|
|
e ingrandita da un opportuno sistema ottico che ricostruisce
|
|
l'immagine sulla matrice di un sensore CMOS o CCD.
|
|
Nel secondo caso l'area di interesse viene suddivisa in un reticolo
|
|
tridimensionale di punti e ogni punto viene acquisito sequenzialmente,
|
|
illuminando il più piccolo volume circostante possibile e raccogliendo
|
|
tutta la radiazione emessa proveniente dal medesimo volume in un
|
|
unico punto, coincidente con l'apertura di un fotodiodo o di un
|
|
fotomoltiplicatore.
|
|
|
|
Il principale vantaggio delle tecniche a scansione rispetto a quelle
|
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a campo largo risiede, solitamente, in una più marcata soppressione del
|
|
rumore di fondo dovuto all'emissione di fluorescenza fuori dal
|
|
piano focale. I microscopi che sfruttano queste tecniche sono infatti
|
|
equipaggiati di opportuni accorgimenti per filtrare sia la radiazione
|
|
di eccitazione che quella raccolta, in modo da selezionare uno strato
|
|
estremamente sottile del volume del campione.
|
|
Le dimensioni del volume selezionato per ogni
|
|
punto acquisito possono avvicinarsi molto al limite di diffrazione,
|
|
in questo modo è possibile visualizzare in maniera estremamente nitida
|
|
strutture con dettagli di dimensioni confrontabili con il limite
|
|
di diffrazione.
|
|
Lo svantaggio principale invece sta nella massima risoluzione
|
|
temporale ottenibile: per acquisire un'immagine è necessario
|
|
muovere il campione (o il fascio di illuminazione) attraverso
|
|
l'intero reticolo e per ogni punto è richiesto un tempo di sosta
|
|
adeguato a raccogliere un numero sufficiente di fotoni.
|
|
La risoluzione temporale di un microscopio a scansione, quindi,
|
|
decresce all'aumentare delle dimensioni dell'area osservata e della
|
|
densità di punti acquisita.
|
|
|
|
La microscopia a campo largo, acquisendo simultaneamente tutto il
|
|
campo visivo in una sola volta, consente di raggiungere risoluzioni
|
|
temporali molto elevate anche per campioni estesi. La velocità
|
|
di acquisizione di un singolo fotogramma è essenzialmente limitata
|
|
dalla sensibilità del sensore usato e dalla velocità di trasferimento
|
|
dei dati.
|
|
Tuttavia, in questo caso, sul sensore si va a sommare all'immagine
|
|
proveniente dai fluorofori nel piano focale quella, fuori fuoco,
|
|
di tutti gli emettitori che si trovano su piani diversi attraversati
|
|
dal fascio.
|
|
In campioni con una elevata densità di fluorofori liberi in soluzione
|
|
questo effetto viene particolarmente accentuato, con un impatto
|
|
negativo sul rapporto segnale/rumore ottenibile e di conseguenza
|
|
sulla possibilità di individuare e localizzare singole molecole.
|
|
|
|
Per ottenere una sensibilità di singola molecola senza sacrificare
|
|
la risoluzione temporale sono state sviluppate tecniche che,
|
|
manipolando il fascio di eccitazione, consentono di ridurre lo
|
|
spessore del volume di campione eccitato, come la microscopia a
|
|
riflessione interna totale
|
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(TIRF, \textit{Total Internal Reflection Fluorescence microscopy})
|
|
o quella a foglio di luce inclinato
|
|
(HILO, \textit{Highly Inclined and Laminated Optical sheet
|
|
microscopy}).
|
|
Grazie a queste due tecniche è possibile ottenere una sensibilità
|
|
di singola molecola con una risoluzione temporale nell'ordine dei
|
|
millisecondi, rendendo possibile ad esempio il tracciamento
|
|
degli spostamenti di una proteina.
|
|
|
|
\subsection{TIRF}
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|
|
|
La microscopia di fluorescenza a riflessione interna totale (TIRF)
|
|
permette di ridurre il rumore dovuto alla fluorescenza fuori fuoco
|
|
sfruttando, per l'eccitazione dei fluorofori, un'onda evanescente
|
|
in grado di penetrare solo le prime centinaia di nanometri del
|
|
campione.
|
|
|
|
L'onda evanescente viene ottenuta facendo incidere il fascio
|
|
di eccitazione all'interfaccia di separazione tra il vetrino
|
|
coprioggetti e il campione con un angolo maggiore rispetto
|
|
all'angolo critico $\theta_c$ definito dalla \emph{legge di Snell}.
|
|
Un fascio che incide sulla superficie di separazione tra due mezzi con
|
|
indice di rifrazione $n_i$ e $n_t$, con un angolo rispetto alla normale
|
|
$\theta_i$, verrà rifratto a un angolo $\theta_r$ definito dalla relazione:
|
|
|
|
\begin{multline}
|
|
n_i \sin(\theta_i) = n_t \sin(\theta_t) \\
|
|
\Rightarrow \sin(\theta_t) = \frac{n_i}{n_t} \sin(\theta_i) \\
|
|
\Rightarrow \left\lvert
|
|
\frac{n_i}{n_t} \sin(\theta_i)
|
|
\right\rvert \leq 1 \\
|
|
\Rightarrow \theta_i \leq \arcsin\left(\frac{n_t}{n_i}\right)
|
|
\doteq \theta_c
|
|
\end{multline}
|
|
|
|
Quando un'onda elettromagnetica passa da un mezzo con un indice
|
|
di rifrazione più grande a uno con indice di rifrazione più piccolo,
|
|
e quindi $\theta_c = \arcsin\left(\tfrac{n_t}{n_i}\right)$ è un angolo
|
|
reale, si può avere \emph{riflessione interna totale} se l'angolo
|
|
di incidenza è superiore a $\theta_c$.
|
|
In queste condizioni tutta l'energia dell'onda incidente viene
|
|
riflessa nel primo mezzo e non si ha la formazione di un raggio
|
|
rifratto nel secondo.
|
|
|
|
Per studiare le caratteristiche dell'onda elettromagnetica
|
|
nel secondo mezzo è necessario fare ricorso alle equazioni di
|
|
Maxwell, che impongono condizioni precise sulla continuità
|
|
delle componenti normali e trasverse del campo elettrico attraverso
|
|
l'interfaccia tra due materiali diversi.
|
|
|
|
Un'onda elettromagnetica monocromatica piana con vettore d'onda
|
|
$\vec{k}$ e frequenza angolare $\omega$ sarà descritta dal campo elettrico
|
|
\begin{equation}
|
|
\label{eq:e_field}
|
|
\vec{E}(\vec{r},t) =
|
|
\vec{E}_0 \Re \left(
|
|
e^{i(
|
|
\vec{k} \cdot \vec{r}-\omega t
|
|
)}
|
|
\right)
|
|
\end{equation}
|
|
|
|
La direzione del vettore $k$ corrisponde a quella di propagazione
|
|
dell'onda elettromagnetica e il suo modulo, il \emph{numero
|
|
d'onda}, dipende dall'indice di rifrazione del mezzo attraversato
|
|
e dalle frequenze della radiazione:
|
|
|
|
\begin{equation}
|
|
\label{eq:k_vinc}
|
|
k = \frac{\omega}{c / n}
|
|
\Rightarrow
|
|
k^2 = (\vec{k})_x^2 + (\vec{k})_y^2 + (\vec{k})_z^2
|
|
= \frac{n^2 \omega^2}{c^2}
|
|
\end{equation}
|
|
|
|
Consideriamo ora un'onda elettromagnetica che incide sulla superficie
|
|
di separazione tra due mezzi, con indici di rifrazione $n_1 > n_2$ e
|
|
con un angolo di incidenza rispetto alla normale alla superficie
|
|
$\theta_i$.
|
|
|
|
Possiamo descrivere la propagazione attraverso la superficie di
|
|
separazione usando un sistema di riferimento dove l'asse $z$ è
|
|
parallelo a essa e il vettore d'onda appartiene al piano $xz$.
|
|
Avremo quindi $(\vec{k})_y = 0$ e $k^2 =(\vec{k})_x^2 + (\vec{k})_z^2)$.
|
|
\begin{figure}[ht]
|
|
\centering
|
|
\includegraphics[width=\linewidth]{images/ev_wave.pdf}
|
|
\caption{Vincoli sui vettori d'onda all'interfaccia di
|
|
separazione tra due mezzi. Le semicirconferenze grigie
|
|
hanno raggio pari al modulo del vettore d'onda.}
|
|
\label{fig:ev_Wave}
|
|
\end{figure}
|
|
|
|
|
|
I vettori $\vec{k}$ delle onde incidenti, trasmessa e riflessa,
|
|
devono rispettare il vincolo definito dall'equazione \ref{eq:k_vinc}.
|
|
Questa condizione è rappresentata graficamente nella figura
|
|
\ref{fig:ev_Wave} dalle due semicirconferenze grigie.
|
|
|
|
Inoltre, per le condizioni di continuità all'interfaccia imposte
|
|
dalle equazioni di Maxwell, deve conservarsi la componente
|
|
tangenziale alla superficie di separazione del vettore d'onda,
|
|
ovvero:
|
|
|
|
\begin{equation}
|
|
(\vec{k}_i)_z = (\vec{k}_r)_z = (\vec{k}_t)_z
|
|
\end{equation}
|
|
|
|
Da queste due condizioni segue che la componente $x$ del vettore
|
|
d'onda trasmesso è data da:
|
|
\begin{multline}
|
|
(\vec{k}_t)_x
|
|
= \sqrt{k_t^2-(\vec{k}_t)_z^2}
|
|
= \sqrt{k_t^2-(\vec{k}_i)_z^2}
|
|
= \sqrt{k_t^2-k_i^2 \sin^2\theta_i}
|
|
= \frac{n_1 \omega}{c} \sqrt{
|
|
\left(\frac{n_2}{n_1}\right) - \sin^2\theta_i
|
|
}\\
|
|
= \frac{n_1 \omega}{c}\sqrt{
|
|
\sin^2\theta_c - \sin^2\theta_i
|
|
}
|
|
\end{multline}
|
|
|
|
Per angoli di incidenza maggiori rispetto a quello critico,
|
|
$\theta_i > \theta_c$, il termine sotto radice diventa negativo.
|
|
Si ottiene quindi una componente $(\vec{k}_t)_x$ immaginaria pura:
|
|
|
|
\begin{multline}
|
|
\vec{k}_t =
|
|
\left(
|
|
\frac{n_1 \omega}{c}\sqrt{
|
|
\sin^2\theta_i - \sin^2\theta_c
|
|
}
|
|
\right) i \vec{\hat{x}}
|
|
+ \left(
|
|
\frac{n_1 \omega}{c} \sin\theta_i
|
|
\right) \vec{\hat{z}} = \\
|
|
= \alpha i \vec{\hat{x}}
|
|
+ \left(
|
|
\frac{n_1 \omega}{c} \sin\theta_i
|
|
\right) \vec{\hat{z}}
|
|
\end{multline}
|
|
|
|
Possiamo ottenere ora l'espressione del campo elettrico trasmesso
|
|
sostituendo $\vec{k_t}$ nell'espressione \ref{eq:e_field}:
|
|
|
|
\begin{equation}
|
|
\vec{E}_t(\vec{r},t)
|
|
= \vec{E}_{t,0} \Re \left(
|
|
e^{i(
|
|
\vec{k}_t \cdot \vec{r}-\omega t
|
|
)}
|
|
\right)
|
|
= \vec{E}_{t,0} \Re \left(
|
|
e^{i \left[
|
|
\left(n_1\omega\sin\theta_i/c\right) z
|
|
-\omega t
|
|
\right]}
|
|
\right)
|
|
e^{-\alpha x}
|
|
\end{equation}
|
|
|
|
Il modulo del campo elettrico trasmesso decade quindi
|
|
esponenzialmente all'aumentare della distanza dalla superficie di
|
|
separazione.
|
|
Possiamo definire la profondità di penetrazione $d_p$ come il valore
|
|
di $x$ per il quale l'intensità luminosa si è ridotta di un fattore $1/e$
|
|
rispetto al valore iniziale:
|
|
\begin{equation}
|
|
\label{eq:depth}
|
|
d_p
|
|
= \frac{1}{2\alpha}
|
|
= \frac{c}{2 n_1 \omega} \frac{1}{\sqrt{
|
|
\sin^2\theta_i - \sin^2\theta_c
|
|
}}
|
|
= \frac{\lambda_0}{4 \pi n_1} \frac{1}{\sqrt{
|
|
\sin^2\theta_i - \sin^2\theta_c
|
|
}}
|
|
\end{equation}
|
|
|
|
Questo valore è importante per capire qual è la profondità massima
|
|
di un fluoroforo affinché questo possa scambiare energia con
|
|
l'onda evanescente ed emettere fluorescenza.
|
|
Se consideriamo gli indici di rifrazione tipici del vetrino
|
|
coprioggetti ($n_1 \approx 1.5$) e di una soluzione acquosa
|
|
($n_2 \approx 1.3$) otteniamo un angolo critico $\theta_c \approx
|
|
\SI{60}{\degree}$.
|
|
Considerando una lunghezza d'onda di eccitazione tipicamente usata
|
|
in microscopia di fluorescenza, $\lambda_0 = \SI{532}{\nm}$, e
|
|
un angolo di incidenza $\theta_i \approx \SI{62}{\degree}$,
|
|
otteniamo una profondità di penetrazione $d_p$ di circa \SI{150}{\nm}.
|
|
|
|
Questi numeri ci danno un'idea del limiti del campo
|
|
di applicazione della microscopia TIRF. Quando è necessario
|
|
individuare fluorofori che si trovano a una profondità maggiore
|
|
di poche centinaia di nanometri rispetto al vetrino coprioggetti
|
|
questa tecnica non è più utilizzabile. Inoltre, come recentemente
|
|
evidenziato \cite{}, esistono limiti che mettono in discussione
|
|
l'applicabilità dell'equazione \ref{eq:depth} in situazioni reali;
|
|
questa infatti non tiene conto di alcuni fattori, come la
|
|
- seppur piccola - divergenza del fascio laser gaussiano, che non
|
|
consente di definire univocamente l'angolo di incidenza.
|
|
Le caratteristiche del sistema ottico e variazioni di indice di
|
|
rifrazione all'interno del campione possono, in generale, fare sì
|
|
che una considerevole parte di radiazione diretta (non evanescente)
|
|
attraversi il campione. In generale non è possibile conoscere con
|
|
certezza il volume illuminato a priori, ma è necessario eseguire
|
|
un qualche tipo di calibrazione.
|
|
|
|
Per ottimizzare il rapporto segnale/rumore quando si deve lavorare
|
|
a profondità maggiori è stata sviluppata un'altra tecnica, la HILO,
|
|
che sfrutta le proprietà della rifrazione per comprimere lo spessore
|
|
di campione illuminato.
|
|
|
|
\subsection{HILO}
|
|
|
|
La microscopia a fogli di luce altamente inclinati
|
|
(\textit{Highly Inclined Laminated Optical Sheet microscopy}, HILO)
|
|
permette, analogamente alla TIRF, di illuminare uno spessore
|
|
ridotto del campione.
|
|
|
|
In questo caso, come mostrato in figura \ref{fig:hilo}, si sfrutta
|
|
un fascio di illuminazione obliquo rispetto alla superficie del
|
|
campione. Questo fascio obliquo interseca sempre il centro del
|
|
sistema ottico, e quindi la parte del campione a fuoco (ovvero posta
|
|
in un piano coniugato del sensore CMOS o CCD),
|
|
ma eccitando esclusivamente i fluorofori in uno spessore ridotto
|
|
del campione ($d$), attorno al piano focale, a una quota sulla superficie
|
|
dipendente dallo spostamento orizzontale del fascio di eccitazione ($\Delta x$).
|
|
|
|
\begin{figure}[ht]
|
|
\centering
|
|
\includegraphics[width=\linewidth]{images/hilo.pdf}
|
|
\caption{Schema di illuminazione HILO. Effetto
|
|
della rifrazione sulla dimensione del fascio (a sinistra) e
|
|
relazione tra quota del campione illuminata e spostamento
|
|
orizzontale del fascio (a destra).}
|
|
\label{fig:hilo}
|
|
\end{figure}
|
|
|
|
Lo spessore verticale illuminato è tanto più piccolo quanto
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maggiore è l'angolo di incidenza del fascio e tanto minore è
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il diametro del fascio D (e quindi il campo visivo illuminato).
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Nel caso dell'ottica geometrica lo spessore $d$ è dato dalla
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relazione:
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\begin{equation}
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d = \frac{D}{\tan\theta_t}
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\end{equation}
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dove D è il diametro del fascio sul piano di incidenza e $\theta_t$ è l'angolo
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del fascio rifratto rispetto alla normale.
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Lo spessore $d$, quindi, potrebbe essere reso piccolo a piacere avvicinando l'angolo
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di incidenza all'angolo critico. Tuttavia i fasci luminosi utilizzati,
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tipicamente generati da un \textit{laser}, sono di tipo gaussiano e
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non si propagano secondo le leggi dell'ottica geometrica.
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In particolare il raggio minimo del fascio (\textit{waist}) e
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la sua divergenza sono inversamente correlati. Se $\$w_0$ è il minimo
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valore del raggio del fascio durante la sua propagazione e $z$ è
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la distanza, lungo la direzione di propagazione, dal punto di minimo,
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l'evoluzione del raggio di un fascio gaussiano seguirà l'andamento:
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\begin{equation}
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\label{eq:waist}
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w(z)
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= w_0 \sqrt{1 + \left(
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\frac{z}{\pi w_0^2 / \lambda}
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\right)^2}
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= w_0 \sqrt{1 + \left(
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\frac{z}{z_R}
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\right)^2}
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\end{equation}
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Il parametro $z_R$ introdotto nell'equazione \ref{eq:waist} rappresenta
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una proprietà importante dei fasci gaussiani, ovvero il \textit{parametro
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confocale}. A una distanza $z_R$ dal \textit{waist} lungo la direzione
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di propagazione il diametro del fascio risulta aumentato di un fattore
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$\sqrt{2}$, per poi continuare a crescere secondo la relazione \ref{eq:waist}.
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Quindi, maggiore è la lunghezza $z_R$ minore sarà la divergenza. Questa lunghezza,
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però, è inversamente proporzionale al diametro minimo del fascio, come si può
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vedere confrontando il secondo e il terzo membro dell'equazione \ref{eq:waist}.
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Questo vuol dire che è possibile ottenere un fascio gaussiano con un diametro più
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piccolo solo aumentandone la divergenza.
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%%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%%
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Nel caso della diffrazione di un fascio gaussiano, passando da un mezzo
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con indice di rifrazione $\theta_i$ a uno con indice di rifrazione $\theta_r$,
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le dimensioni del \textit{waist} nella direzione perpendicolare alla
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superficie d'incidenza vengono compresse di un fattore
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$\cos\theta_i / \cos\theta_r$. La divergenza del fascio sarà però determinata
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dal nuovo fattore confocale
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$z_R' = \pi (w_0')^2 / \lambda = \pi (w_0 \cos\theta_i / \cos\theta_r)^2 / \lambda$
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(vedi figura \ref{fig:gaussian_hilo}).
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\begin{figure}[ht]
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\centering
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\includegraphics[width=0.5\linewidth]{gaussian_hilo.pdf}
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\caption{Compressione di un fascio gaussiano in seguito a rifrazione.}
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\label{fig:gaussian_hilo}
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\end{figure}
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Possiamo quindi affermare che viene effettivamente illuminato uno
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spessore di campione $\delta x = 2 w_0' = 2 w_0 \cos\theta_i / \cos\theta_r$
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attraverso una lunghezza trasversale
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$\delta z = 2 z_R' =
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2 \pi (w_0 \cos\theta_i / \cos\theta_r)^2 / \lambda$
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Questa tecnica, a differenza della TIRF, permette di effettuare una
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scansione in profondità del campione. Infatti, in virtù della
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geometria del sistema d'illuminazione, se il piano focale viene
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modificato allontanando o avvicinando il campione
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dall'obiettivo, la posizione in cui il fascio inclinato incide
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sul vetrino risulterà traslata orizzontalmente e, di conseguenza, il
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fascio di illuminazione attraverserà il centro del campione in
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corrispondenza del piano focale, come mostrato in figura \ref{fig:hilo_focus}
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\begin{figure}[ht]
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\centering
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\includegraphics[width=0.5\linewidth]{hilo_focus.pdf}
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\caption{Illuminazione HILO e selezione del piano focale.}
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\label{fig:hilo_focus.pdf}
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\end{figure}
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