%%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% \chapter{Introduzione} Gli stimoli meccanici rivestono nell'ambito dei sistemi biologici un ruolo importante nel determinare il corretto funzionamento di cellule, tessuti e organismi complessi. Mentre tradizionalmente la biologia si è occupata di studiare come processi cellulari e intercellulari fossero regolati dallo scambio di molecole biologiche, il ruolo degli stimoli meccanici è stato a lungo ritenuto marginale nella descrizione di questi processi. Lo sviluppo di tecniche sempre più avanzate e precise per la visualizzazione e la manipolazione di molecole all'interno di campioni biologici ha iniziato a mutare questa concezione: oggi possiamo indagare nel dettaglio il funzionamento dei motori molecolari all'interno delle nostre cellule o misurare come variazioni nella tensione applicata a un polimero possano indurre una riorganizzazione strutturale nello stesso e cambiarne le proprietà biochimiche. Per molti processi biologici il ruolo della forza è fondamentale, ad esempio nei complessi proteici che legano tra di loro le cellule in un tessuto, le \emph{giunzioni cellulari}. Queste si comportano come complesse macchine in grado di elaborare stimoli di tipo biochimico e meccanico, comunicando e interferendo con le funzioni del resto della cellula. Esistono diversi tipi di giunzioni cellulari, responsabili di specifiche funzioni e caratterizzate dalla reciproca interazione di diversi tipi di proteine. La dinamica della loro interazione viene modificata e modulata dalle sollecitazioni meccaniche esterne, permettendo alle giunzioni di comportarsi come \emph{trasduttori} di segnali meccanici. Diversi metodi sono stati proposti e realizzati sperimentalmente per osservare l'attività di meccano-trasduzione nei sistemi biologici \cite{??}, sfruttando tecniche sia \textit{in vivo} che \textit{in vitro}, osservando sia gli effetti macroscopici che le interazioni tra singole molecole. Nonostante ciò, per quanto riguarda le giunzioni cellulari, siamo ancora lontani da una descrizione soddisfacente, sia da un punto di vista qualitativo che quantitativo, dei meccanismi e delle interazioni coinvolte. Raggiungere una migliore comprensione riguardo al ruolo e al funzionamento della meccano-trasduzione nelle giunzioni cellulari rappresenta un terreno fertile e un forte stimolo per la ricerca di base interdisciplinare, spingendo scienziati con formazioni diverse ad unire le loro competenze e sviluppare tecniche complementari, in modo da acquisire una visione sempre più globale su fenomeni estremamente complessi, che coinvolgono simultaneamente processi meccanici, termodinamici e biochimici. Lo scopo di questo lavoro di tesi è, sviluppare, in gran parte \textit{ex-novo}, un apparato sperimentale per lo studio della meccano-trasduzione in contesti complessi come quello delle giunzioni cellulari, basato sulla manipolazione ottica di due proteine interagenti e il \textit{tracking} simultaneo, tramite microscopia di fluorescenza, di altre singole biomolecole nei pressi del sito di interazione. La manipolazione tramite pinzette ottiche rappresenta infatti una strada molto promettente per lo studio, anche quantitativo, di effetti meccano-biologici, grazie alla possibilità di ottenere una precisione di posizionamento nanometrica e di applicare alle molecole un ampio intervallo di forze nell'ordine dei piconewton e dei femtonewton. Le pinzette ottiche permettono di sondare il comportamento di complessi proteici sottoponendo due molecole interagenti a stress meccanici controllati e andando a osservare come la dinamica delle interazioni dipenda dalle forze esterne. Questo tipo di esperimenti si riconduce alle \emph{spettroscopie di forza}, che in generale vengono realizzate utilizzando diverse tecniche, come la microscopia a forza atomica, le onde acustiche o le pinzette ottiche. I brevissimi tempi di risposta ottenibili utilizzando queste ultime, inferiori al millisecondo, hanno fatto si che le pinzette ottiche fossero applicate con successo allo studio di sistemi interagenti con affinità molto deboli o rapide modifiche conformazionali, come i motori molecolari \cite{Capitanio2012}. L'apparato sperimentale descritto in questo lavoro consiste sostanzialmente in una ricostruzione di quello utilizzato in \cite{Capitanio2012} per lo studio dei motori molecolari per quanto riguarda la componente di spettroscopia di forza, integrato con un sistema di microscopia di fluorescenza che consenta di osservare simultaneamente la dinamica di singole molecole interagenti con le proteine intrappolate. Infatti, fino a ora il principale limite di questi esperimenti è stato quello di produrre informazioni dinamiche esclusivamente sui due componenti interagenti selezionati per la spettroscopia di forza, trascurando ogni altra possibile interazione. Se in diversi scenari questo è più che sufficiente, alcuni sistemi biologici, questo approccio mostra evidenti limiti nello studio di una complessa rete di interazioni come quella delle giunzioni cellulari. Un apparato con queste caratteristiche dovrebbe consentire, durante un esperimento di spettroscopia di forza, di registrare simultaneamente sia la risposta meccanica delle due proteine immobilizzare, sia l'eventuale interazione con altri fattori opportunamente marcati presenti nella soluzione usata per l'esperimento. L'ostacolo principale al raggiungimento di questo risultato è dato dalla difficoltà di visualizzare, tramite microscopia ottica, l'attività di una singola molecola fluorescente sopra un fondo di fluorofori liberi in soluzione. Una soluzione tipicamente adottata prevede l'uso di schemi di illuminazione come la riflessione interna totale (TIRF, \textit{Total Internal Reflection Fluorescence microscopy}) o i fogli di luce inclinati (HILO, \textit{Highly Inclined and Laminated Optical sheet microscopy}), in modo da ridurre il volume di campione eccitato e quindi l'emissione di fluorescenza di fondo. Questi schemi di illuminazione però richiedono requisiti molto stringenti. Ad esempio per poter utilizzare la TIRF, come approfondito in sezione \ref{sec:fluo} è necessario che il volume osservato sia nelle immediate vicinanze della superficie del vetrino coprioggetti usato per la preparazione del campione, condizione che è impossibile realizzare negli esperimenti di spettroscopia di forza, dove le proteine vengono funzionalizzate su sfere dielettriche di dimensioni micrometriche. In questo caso infatti il volume di campione dove si trovano le proteine interagenti ha uno quota significativa (diverse centinaia di micrometri) rispetto al vetrino coprioggetti. Scopo dell'apparato sperimentale sarà anche studiare la possibilità di superare questo limite usando la sfera dielettrica come risuonatore ottico, e quindi come strumento in grado di trasferire la radiazione di eccitazione dall'immediata prossimità del vetrino coprioggetti ai fluorofori presenti in prossimità del sito di interazione. In questo modo il segnale proveniente da molecole fuori fuoco, lontane dalla microsfera, sarebbe efficacemente soppresso. Nelle prossime sezioni è possibile trovare una trattazione più approfondita degli argomenti introdotti, in particolare nella sezione \ref{sec:giunzioni} vengono introdotte due importanti tipologie di giunzioni cellulari particolarmente interessanti per studio con un sistema combinato come quello qui descritto.\\ Nella sezione \ref{sec:ot} vengono trattate in maniera più approfondita le pinzette ottiche e la loro applicazione agli esperimenti di spettroscopia di forza.\\ Nella sezione \ref{sec:fluo} vengono introdotti i principali limiti della microscopia di fluorescenza e le soluzioni proposte per il loro superamento. Nel capitolo \ref{cap:methods} vengono descritte nel dettaglio le caratteristiche dell'apparato sperimentale realizzato e le procedure di validazione, calibrazione e acquisizione dei dati. Nel capitolo \ref{cap:results} sono analizzati i dati prodotti durante le operazioni di validazione dell'apparato sperimentale e delle procedure di misura per valutare le prestazioni ottenibili e la loro adeguatezza agli esperimenti ipotizzati. % Introduction on the importance of mechanotransduction %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% % between \section{Giunzioni cellulari} \label{sec:giunzioni} Le giunzioni cellulari svolgono un ruolo fondamentale per l'esistenza stessa degli organismi multicellulari. Esse sono infatti responsabili della capacità delle cellule di connettersi l'una con l'altra e di organizzarsi per formare tessuti e organi con funzioni specifiche. Le funzioni delle giunzioni cellulari vanno ben oltre quelle di una passiva struttura di raccordo: esse sono responsabili, ad esempio, di veicolare informazioni e sostanze tra una cellula e l'altra, guidare la loro proliferazione o migrazione, mantenere la stabilità dei tessuti o avviarne la riparazione quando necessario. \begin{figure}[ht] \centering \includegraphics[width=0.5\linewidth]{images/adjunc.pdf} \caption{Sequenza di cellule connesse da \emph{giunzioni aderenti} (sopra) e dettaglio di una giunzione aderente, con indicazione delle principali proteine coinvolte (sotto)} \label{fig:ad_jun} \end{figure} Le giunzioni cellulari possono connettersi direttamente a strutture interne della cellula (come il citoscheletro) e si formano dall'auto-assemblamento di un grande numero di proteine differenti. Per loro natura attraversano la membrana cellulare andando a formare legami con strutture analoghe presenti in cellule adiacenti o con strutture intermedie di supporto, come la matrice extra-cellulare. Esistono diversi tipi di giunzioni che svolgono funzioni specifiche. Un tipo di giunzione molto comune nei tessuti epiteliali e endoteliali è la \emph{giunzione aderente}, rappresentata in modo schematico in figura \ref{fig:ad_jun}. Nelle giunzioni aderenti la proteina che direttamente ancora il complesso alla membrana plasmatica è la \emph{caderina}. Questa è una proteina trans-membrana costituita da un dominio di coda citoplasmatico e un dominio di testa esterno alla membrana cellulare. Il dominio extra-membrana è in grado di dimerizzare con domini analoghi presenti in cellule adiacenti, formando la giunzione. Il dominio intra-membrana permette di stabilire un collegamento diretto tra la giunzione cellulare e il citoscheletro di actina, grazie al legame con una classe di proteine, le \emph{catenine}, in grado di legarsi sia con la coda della caderina che con i filamenti di actina del citoscheletro. Oltre a questa connessione diretta esistono altre proteine che mantengono una connessione indiretta, legando ad esempio le catenine con il citoscheletro. É stato scoperto \cite{??} che le proteine \emph{vinculina} e \emph{$\alpha$-actinina} svolgono questa attività. Sebbene la funzione di questi collegamenti indiretti non sia stata ancora del tutto compresa, è stato dimostrato che la sua presenza delle proteine responsabili è fondamentale per il corretto sviluppo dei tessuti. Esperimenti su colture cellulari in il gene che codifica l'espressione della vinculina è stato rimosso suggeriscono come, oltre ad una riduzione generale dell'adesione tra cellule, si perda alcune funzioni di regolazione e modulazione dell'attività delle giunzioni. La vinculina, quindi, così come altre proteine secondarie, potrebbe avere un ruolo nel modulare i meccanismi di adesione e svolgere un ruolo nei processi di meccano-trasduzione. La possibilità di realizzare esperimenti di spettroscopia di forza in cui è possibile tenere traccia dell'attività di una o più proteine secondarie apre la strada verso una maggiore comprensione del loro ruolo. Lo stato attuale delle conoscenze sulla rete di interazioni che governa e regola il funzionamento delle giunzioni aderenti è riportato schematicamente in Appendice, sotto forma di diagramma delle vie di segnalazione. \begin{figure}[ht] \centering \includegraphics{images/aj.pdf} \caption{Ruolo di \textbf{caderina} e catenine nelle \textit{giunzioni aderenti}} \label{fig:aj} \end{figure} \vspace{1em} Un'altra classe di giunzioni cellulari è rappresentata dalle giunzioni occludenti (\textit{tight junction}), la cui caratteristica principale è quella di sigillare lo spazio intercellulare, rendendolo impermeabile e impedendo a molecole e ioni di attraversare un tessuto. L'organizzazione spaziale delle giunzioni occludenti consente inoltre la creazione di canali selettivamente permeabili per il trasporto di specifiche molecole, tuttavia ancora non sono chiari i meccanismi che modulano e regolano il loro funzionamento. Come nel caso delle giunzioni aderenti questo emerge dall'interazione tra un certo numero di proteine interagenti. \begin{figure}[ht] \centering \includegraphics{images/tj.pdf} \caption{Ruolo di \textbf{ZO-1} nelle \emph{giunzioni occludenti}} \label{fig:tj} \end{figure} Diverse proteine attraversano la membrana e dimerizzano con le loro omologhe appartenenti alla cellula adiacente, tra le quali \emph{claudina}, \emph{occludina} e diverse proteine appartenenti alla classe delle \textit{junctional adhesion molecules}, (JAM). Queste proteine di membrana si legano alla proteina \textit{Zona occludens 1}, ZO-1 che, come mostrato da recenti studi \cite{??}, potrebbe modulare la formazione delle giunzioni e occuparsi della trasduzione di segnali meccanici. Inoltre vi sono evidenze sul ruolo di una terza proteina, la \textit{cingulina}, nel modulare l'interazione di ZO-1 con il citoscheletro di actina. Un'ipotesi è che il legame cingulina-ZO-1 possa indurre delle modifiche conformazionali in ZO-1 tali da consentire un legame diretto con in filamenti di actina. Anche in questo caso, per comprendere il ruolo della cingulina nella trasduzione dei segnali meccanici, sembra promettente utilizzare una tecnica che consenta, durante l'osservazione dell'interazione di due proteine sottoposte a stress meccanici, di osservare l'eventuale attaccamento al complesso di una terza proteina. Ad esempio sarebbe possibile ipotizzare un esperimento in cui allo studio dell'effetto delle sollecitazioni meccaniche sul legame actina-ZO-1 viene aggiunta l'osservazione dell'attività della cingulina attraverso microscopia di fluorescenza. \section{Manipolazione ottica di molecole biologiche} \label{sec:ot} Le pinzette ottiche (o \textit{optical tweezer}, OT) sono strumenti che sfruttano la \emph{forza di radiazione} esercitata da un fascio laser gaussiano altamente focalizzato su materiali dielettrici, in modo da intrappolare e manipolare oggetti microscopici con una precisione sub-nanometrica. Questa tecnologia sfrutta il gradiente d'intensità di un fascio gaussiano focalizzato interagente con particelle dielettriche immerse in un fluido. L'interazione delle particelle con la radiazione fa si che queste risentano di una forza di richiamo verso una posizione di equilibrio in prossimità del fuoco del fascio. Fin dalla loro ideazione vennero subito messe in luce le potenzialità di questa tecnica quando applicata alla manipolazione di campioni biologici. Arthur Ashkin fu, nel 1986, il primo a realizzare sperimentalmente delle pinzette ottiche, riuscendo a intrappolare microsfere sintetiche e batteri\cite{Ashkin:86}. Per questo risultato gli fu conferito il premio Nobel nel 2018, \emph{``per le pinzette ottiche e le loro applicazioni ai sistemi biologici''}. Grazie alle pinzette ottiche è possibile intrappolare solidi dielettrici di diversa dimensione e natura. Per ottenere la capacità di manipolare individualmente singole molecole, come le proteine non è possibile procedere ad un intrappolamento diretto. Si rende necessario quindi sviluppare protocolli per funzionalizzare la superficie di sfere dielettriche e legarci le molecole che intendiamo studiare. Tipicamente esperimenti di questo tipo vengono realizzati utilizzando sfere dielettriche di dimensioni micrometriche funzionalizzate legando covalentemente molecole di \textit{streptavidina} alla loro superficie. In questo modo è possibile successivamente ottenere il legame delle microsfere col polimero biologico d'interesse, purché esso sia stato preventivamente legato a molecole di biotina (biotilinato). Si sfrutta in questo modo il legame streptavidina-biotina, estremamente stabile e praticamente irreversibile (vedi figura \ref{fig:biotin-streptavidin}). \begin{figure}[ht] \centering \includegraphics[width=0.5\linewidth]{images/biotin-streptavidin.pdf} \caption{Manipolazione di una proteina bersaglio utilizzando una microsfera intrappolata e il legame biotina-streptavidina.} \label{fig:biotin-streptavidin} \end{figure} Per descrivere quantitativamente il funzionamento delle pinzette ottiche consideriamo in generale l'effetto dell'interazione tra una microsfera dielettrica, immersa in una soluzione liquida, e la radiazione elettromagnetica prodotta da un fascio laser gaussiano focalizzato. In generale la forza a cui è soggetta la microsfera interagente col campo elettromagnetico può essere scomposta in due contributi: \begin{itemize} \item La \textbf{forza di \textit{scattering}} o pressione di radiazione, sempre orientata nella direzione di propagazione della radiazione e proporzionale alla sua intesità. \item La \textbf{forza di dipolo} o gradiente, proporzionale al gradiente d'intensità della radiazione elettromagnetico. \end{itemize} L'origine di questi due contributi e la dipenza dalle caratteristiche della microsfera e del liquido utilizzati possono essere derivate analiticamente dalle equazioni di Maxwell nei limiti del regime di Rayleigh, ovvero quando le dimensioni della sfera sono molto inferiori alla lunghezza d'onda della radiazione utilizzata. In questo limite possiamo considerare il materiale interagente con la radiazione come un dipolo elettrico puntiforme, associato ad una polarizzabilità $\alpha$. Il vettore di polarizzazione nel dipolo puntiforme sarà quindi $\vec{p} = \alpha \vec{E}$. La pressione di radiazione sarà quindi proporzionale all'impulso dei fotoni retrodiffusi per \textit{scattering} Rayleigh. Nel caso di una microsfera di raggio $a$, indice di rifrazione $n$, immersa in un fluido con indice di rifrazione $m$, la forza di \textit{scattering} può essere espressa\cite{HARADA1996529} come: \begin{equation} \vec{F}_r = \hat{k} \frac{8 \pi n k^4 a^6}{3c} \left( \frac{(n/m)^2 - 1}{(n/m)^2 + 2} \right)^2 \end{equation} L'espressione della forza gradiente può essere ottenuta dall'interazione lorentziana tra la radiazione e il dipolo puntiforme: $$ \vec{F}_g = \left( \vec{p} \cdot \vec{\nabla} \right) \vec{E} + \frac{d\vec{p}}{dt} \times \vec{B} $$ Ovvero, una volta sostituito il vettore di polarizzazione: $$ \vec{F}_g = \alpha \left[ \left( \vec{E} \cdot \vec{\nabla} \right) \vec{E} + \frac{d\vec{E}}{dt} \times \vec{B} \right] $$ E infine, tenendo conto delle \emph{equazioni di Maxwell} e dell'algebra dei vettori: \begin{equation} \label{dipole_force} \vec{F_g} = \alpha \left[ \frac{1}{2}\nabla E^2 + \frac{d}{dt}\left(\vec{E} \times \vec{B}\right) \right] \end{equation} Questa ultima forma (equazione \ref{dipole_force}) ci permette di mettere in evidenza il termine $\frac{d}{dt}(\vec{E} \times \vec{B})$, ovvero la derivata temporale di una quantità oscillante molto rapidamente (\SI{> 1e14}{\Hz}), che può tranquillamente essere considerata costante se confrontata con in tempi tipici dell'evoluzione meccanica del sistema. Il secondo termine può quindi essere trascurato e, sostituendo ad $\alpha$ l'espressione per la polarizzabilità della microsfera otteniamo: \begin{equation} \vec{F}_g = \frac{2\pi n a^3}{c} \left( \frac{(n/m)^2 - 1}{(n/m)^2 + 2} \right) \nabla I(\vec{r}) \end{equation} Il risultato netto dei due contributi è che la microsfera tenderà ad occupare una posizione di equilibrio nel punto in cui i due contributi si cancellano e, se perturbata, risentirà di una forza di richiamo verso la posizione di equilibrio. Un risultato qualitativamente identico è dimostrabile nel limite dell'ottica geometrica, quando la particella è al contrario di dimensioni molto maggiori alla lunghezza d'onda intermedia. Il caso intermedio richiede l'uso della più complessa teoria Lorenz-Mie e spesso il ricorso a soluzioni numeriche, ma l'idea qualitativa alla base dell'intrappolamento resta valida. Nel caso generale i requisiti per un intrappolamento efficace sono quelli di avere una forza di gradiente maggiore di quella di scattering e una energia cinetica delle particelle intrappolate sufficientemente bassa (quindi un fluido sufficientemente viscoso). Per le nostre applicazioni è sufficiente considerare una forza di richiamo del tipo \begin{equation} \vec{F} = -k(\vec{x}-\vec{x}_{eq}) \end{equation} \begin{figure}[ht] \centering \includegraphics[scale=.4]{images/fkx.pdf} \caption{Effetto netto della forza di radiazione} \label{fig:fkx} \end{figure} Il valore di $k$ per una certa trappola ottica, come vedremo, può essere determinato attraverso un'apposita procedura di calibrazione che sfrutta la diffusione della microsfera all'interno della trappola. Inoltre è necessario considerare l'effetto degli urti con le molecole della soluzione liquida in cui la sfera è immersa, che hanno i due seguenti effetti: \begin{itemize} \item La presenza di un attrito viscoso, proporzionale alla velocità relativa della sfera rispetto al fluido \item La fluttuazione della sfera rispetto alla posizione di equilibrio (moto browniano). \end{itemize} Grazie alla termodinamica statistica è possibile mettere in relazione lo spettro delle fluttuazioni di posizione di una sfera intrappolata con il parametro $k$ della forza elastica di richiamo (vedi Appendice \ref{app:fluctuaction_spectrum}). In questo modo, una volta determinato $k$, è possibile mettere in relazione il valore delle forze esterne agenti sulla sfera con il suo spostamento dalla posizione di riposo. \section{Microscopia di fluorescenza di singola molecola} \label{sec:fluo} % come evitare ripetizione "singola(e) molecola(e)" Tipicamente, le tecniche di microscopia di fluorescenza di singola molecola consentono di sondare la posizione e i movimenti di singole molecole con risoluzioni spaziali e temporali prossime, rispettivamente, al nanometro e al millisecondo. In ambito biologico le molecole che vengono osservate con questa tecniche sono polimeri di varia natura, come proteine e acidi nucleici. Anche se alcune di queste molecole possono avere una debole fluorescenza intrinseca, si fa quasi sempre ricorso alla marcatura con fluorofori, cioè molecole con caratteristiche di fluorescenza note e elevata resa quantica. In questo modo è possibile ottenere livelli di segnale maggiori e soprattutto un'elevata specificità nel rendere rilevabili solo le molecole che presentano caratteristiche di interesse. Queste due proprietà sono, come vedremo, molto importanti per raggiungere una buona precisione di localizzazione. Le tecniche di microscopia di fluorescenza sono molto flessibili e spesso non distruttive: consentono di osservare processi biologici in tempo reale in celle di reazione, colture cellulari e organismi viventi. Un esperimento di microscopia di fluorescenza generalmente comprende due fasi principali: \begin{itemize} \item La marcatura delle molecole di interesse, ovvero l'attuazione di un protocollo per legare specificamente il fluoroforo scelto alle molecole che si intende visualizzare. \item La produzione delle immagini, mediante l'illuminazione del campione alla lunghezza d'onda di eccitazione del fluoroforo e la raccolta della radiazione emessa alla lunghezza d'onda di emissione. \end{itemize} Per quanto riguarda la marcatura (o \textit{labeling}) delle molecole esistono svariate strategie e tipologie di fluorofori utilizzabili. Il fluoroforo può essere legato covalentemente alla molecola di interesse attraverso apposite reazioni chimiche, può essere incorporato in un anticorpo, ovvero una proteina in grado di riconoscere siti specifici di altre molecole e legarvisi non covalentemente, oppure tramite l'ingegneria genetica è possibile fornire a delle cellule le istruzioni per sintetizzare e assemblare proteine contenenti regioni fluorescenti. I fluorofori utilizzati possono essere piccole molecole organiche, nanoparticelle realizzate in materiali semiconduttori (come i punti quantici) oppure sequenze di amminoacidi. In commercio si trovano numerosi fluorofori operanti in molteplici regioni dello spettro visibile e con protocolli di marcatura standardizzati. La scelta del fluoroforo e del protocollo di marcatura devono tener conto di numerosi fattori, tra i quali: le condizioni dell'esperimento (in vivo o in vitro), le possibili interferenze col comportamento del sistema studiato, la compatibilità con le sostanze chimiche usate in soluzione, la stabilità del fluoroforo stesso e il suo tempo di vita. Per la produzione delle immagini esistono due macro-categorie di tecniche: le microscopie a campo largo (o \textit{wide-field}) e le miscroscopie a scansione puntiforme. Nel primo caso l'intero volume osservato viene illuminato uniformemente e la radiazione emessa per fluorescenza viene raccolta e ingrandita da un opportuno cammino ottico che ricostruisce l'immagine sulla matrice di un sensore CMOS o CCD. Nel secondo caso l'area di interesse viene suddivisa in un reticolo tridimensionale di punti e ogni punto viene acquisito sequenzialmente, illuminando il più piccolo volume circostante possibile e raccogliendo tutta la radiazione emessa proveniente dal medesimo volume in un unico punto, coincidente con l'apertura di un fotodiodo o di un fotomoltiplicatore. Il principale vantaggio delle tecniche a scansione rispetto a quelle a campo largo risiede in una più marcata soppressione del rumore di fondo dovuto all'emissione di fluorescenza fuori dal piano focale. I microscopi che sfruttano queste tecniche sono infatti equipaggiati di opportuni accorgimenti per filtrare sia la radiazione di eccitazione che quella raccolta, in modo da selezionare uno strato estremamente sottile del volume del campione. Le dimensioni del volume selezionato per ogni punto acquisito possono avvicinarsi molto al limite di diffrazione, in questo modo è possibile visualizzare in maniera estremamente nitida strutture con dettagli di dimensioni confrontabili con il limite di diffrazione. Lo svantaggio principale invece sta nella massima risoluzione temporale ottenibile: per acquisire un'immagine è necessario muovere il campione (o il fascio di illuminazione) attraverso l'intero reticolo e per ogni punto è richiesto un tempo di sosta adeguato a raccogliere un numero sufficiente di fotoni. La risoluzione temporale di un microscopio a scansione, quindi, decresce all'aumentare delle dimensioni dell'area osservata e della densità di punti acquisita. La microscopia a campo largo, acquisendo simultaneamente tutto il fotogramma in una sola volta, consente di raggiungere risoluzioni temporali molto elevate anche per campioni estesi. La velocità di acquisizione di un singolo fotogramma è essenzialmente limitata dalla sensibilità del sensore usato e dalla velocità della sua scheda elettronica. Tuttavia, in questo caso, sul sensore si va a sommare all'immagine proveniente dai fluorofori nel piano focale quella, fuori fuoco, di tutti gli emettitori che si trovano su piani diversi attraversati dal fascio. In campioni con una elevata densità di fluorofori liberi in soluzione questo effetto viene particolarmente accentuato, con un impatto negativo sul rapporto segnale/rumore ottenibile e di conseguenza sulla possibilità di individuare e localizzare singole molecole. Per ottenere una sensibilità di singola molecola senza sacrificare la risoluzione temporale sono state sviluppate tecniche che, manipolando il fascio di eccitazione, consentono di ridurre lo spessore del volume di campione eccitato, come la microscopia a riflessione interna totale (TIRF, \textit{Total Internal Reflection Fluorescence microscopy}) o quella a fogli di luce inclinati (HILO, \textit{Highly Inclined and Laminated Optical sheet microscopy}). Grazie a queste due tecniche è possibile ottenere una sensibilità di singola molecola a una risoluzione temporale nell'ordine dei millisecondi, rendendo possibile ad esempio il tracciamento degli spostamenti di una proteina. \subsection{TIRF} La microscopia di fluorescenza a riflessione interna totale (TIRF) permette di ridurre il rumore dovuto alla fluorescenza fuori fuoco sfruttando, per l'eccitazione dei fluorofori, un'onda evanescente in grado di penetrare solo le prime centinaia di nanometri del campione. L'onda evanescente viene ottenuta facendo incidere il fascio di eccitazione all'interfaccia di separazione tra il vetrino coprioggetti e il campione con un angolo maggiore rispetto all'angolo critico $\theta_c$ definito dalla \emph{legge di Snell}: \begin{multline} n_i \sin(\theta_i) = n_t \sin(\theta_t) \\ \Rightarrow \sin(\theta_t) = \frac{n_i}{n_t} \sin(\theta_i) \\ \Rightarrow \left\lvert \frac{n_i}{n_t} \sin(\theta_i) \right\rvert \leq 1 \\ \Rightarrow \theta_i \leq \arcsin\left(\frac{n_t}{n_i}\right) \doteq \theta_c \end{multline} Quando un'onda elettromagnetica passa da un mezzo con un indice di rifrazione più grande a uno con indice di rifrazione più piccolo, e quindi $\theta_c = \arcsin\left(\tfrac{n_t}{n_i}\right)$ è un angolo reale, si può avere \emph{riflessione interna totale} se l'angolo di incidenza è superiore a $\theta_c$. In queste condizioni tutta l'energia dell'onda incidente viene riflessa nel primo mezzo e non si ha la formazione di un raggio trasmesso nel secondo. Per studiare le caratteristiche dell'onda elettromagnetica nel secondo mezzo è necessario fare ricorso alle equazioni di Maxwell, che impongono condizioni precise sulla continuità delle componenti normali e trasverse del campo elettrico attraverso l'interfaccia tra due materiali diversi. Un'onda elettromagnetica monocromatica piana con vettore d'onda $\vec{k}$ sarà descritta dal campo elettrico \begin{equation} \label{eq:e_field} \vec{E}(\vec{r},t) = \vec{E}_0 \Re \left( e^{i( \vec{k} \cdot \vec{r}-\omega t )} \right) \end{equation} La direzione del vettore $k$ corrisponde a quella di propagazione dell'onda elettromagnetica e il suo modulo, il \emph{numero d'onda}, dipende dall'indice di rifrazione del mezzo attraversato e dalla frequenza della radiazione: \begin{equation} \label{eq:k_vinc} k = \frac{\omega}{c / n} \Rightarrow (\vec{k})_x^2 + (\vec{k})_y^2 + (\vec{k})_z^2 = \frac{n^2 \omega^2}{c^2} \end{equation} Consideriamo ora un'onda elettromagnetica che incide sulla superficie di separazione tra due mezzi, con indici di rifrazione $n_1 > n_2$ e con un angolo di incidenza rispetto alla normale alla superficie $\theta_i$. Possiamo descrivere la propagazione attraverso la superficie di separazione usando un sistema di riferimento dove l'asse $z$ è parallelo a essa e il vettore d'onda appartiene al piano $xz$. \begin{figure}[ht] \centering \includegraphics[width=\linewidth]{images/ev_wave.pdf} \caption{Vincoli sui vettori d'onda all'interfaccia di separazione tra due mezzi. Le semicirconferenze grigie hanno raggio pari al modulo del vettore d'onda.} \label{fig:ev_Wave} \end{figure} I vettori $\vec{k}$ delle onde incidenti, trasmessa e riflessa, devono rispettare il vincolo definito dall'equazione \ref{eq:k_vinc}. Questa condizione è rappresentata graficamente nella figura \ref{fig:ev_Wave} dalle due semicirconferenze grigie. Inoltre, per le condizioni di continuità all'interfaccia imposte dalle equazioni di Maxwell, deve conservarsi la componente tangenziale alla superficie di separazione del vettore d'onda, ovvero: \begin{equation} (\vec{k}_i)_z = (\vec{k}_r)_z = (\vec{k}_t)_z \end{equation} Da queste due condizioni segue che la componente $x$ del vettore d'onda trasmesso è data da: \begin{multline} (\vec{k}_t)_x = \sqrt{k_t^2-(\vec{k}_t)_z^2} = \sqrt{k_t^2-(\vec{k}_i)_z^2} = \sqrt{k_t^2-k_i^2 \sin^2\theta_i} = \frac{n_1 \omega}{c} \sqrt{ \left(\frac{n_2}{n_1}\right) - \sin^2\theta_i }\\ = \frac{n_1 \omega}{c}\sqrt{ \sin^2\theta_c - \sin^2\theta_i } \end{multline} Per angoli di incidenza maggiori rispetto a quello critico, $\theta_i > \theta_c$, il termine sotto radice diventa negativo. Si ottiene quindi una componente $(\vec{k}_t)_x$ immaginaria pura: \begin{multline} \vec{k}_t = \left( \frac{n_1 \omega}{c}\sqrt{ \sin^2\theta_i - \sin^2\theta_c } \right) i \vec{\hat{x}} + \left( \frac{n_1 \omega}{c} \sin\theta_i \right) \vec{\hat{z}} = \\ = \alpha i \vec{\hat{x}} + \left( \frac{n_1 \omega}{c} \sin\theta_i \right) \vec{\hat{z}} \end{multline} Possiamo ottenere ora l'espressione del campo elettrico trasmesso sostituendo $\vec{k_t}$ nell'espressione \ref{eq:e_field}: \begin{equation} \vec{E}_t(\vec{r},t) = \vec{E}_{t,0} \Re \left( e^{i( \vec{k}_t \cdot \vec{r}-\omega t )} \right) = \vec{E}_{t,0} \Re \left( e^{i \left[ \left(n_1\omega\sin\theta_i/c\right) z -\omega t \right]} \right) e^{-\alpha x} \end{equation} L'ampiezza del campo elettrico trasmesso decade quindi esponenzialmente all'aumentare della distanza dalla superficie di separazione. Possiamo definire la profondità di penetrazione $d_p$ come il valore di $x$ per il quale l'ampiezza del campo elettrico è scesa a $1/e$ del valore iniziale: \begin{equation} d_p = \frac{1}{\alpha} = \frac{c}{n_1 \omega} \frac{1}{\sqrt{ \sin^2\theta_i - \sin^2\theta_c }} = \frac{\lambda_0}{2 \pi n_1} \frac{1}{\sqrt{ \sin^2\theta_i - \sin^2\theta_c }} \end{equation} Questo valore è importante per capire qual è la profondità massima di un fluoroforo affinché questo possa scambiare energia con l'onda evanescente ed emettere fluorescenza. Se consideriamo gli indici di rifrazione tipici del vetrino coprioggetti ($n_1 \approx 1.5$) e di una soluzione acquosa ($n_2 \approx 1.3$) otteniamo un angolo critico $\theta_c \approx \SI{60}{\degree}$. Considerando una lunghezza d'onda di eccitazione tipicamente usata in microscopia di fluorescenza, $\lambda_0 = \SI{532}{\nm}$, e un angolo di incidenza $\theta_c \approx \SI{62}{\degree}$, otteniamo una profondità di penetrazione $d_p$ di circa \SI{300}{\nm}. Questi numeri ci danno un'idea del limiti del campo di applicazione della microscopia TIRF. Quando è necessario individuare fluorofori che si trovano a una profondità maggiore di poche centinaia di nanometri rispetto al vetrino coprioggetti questa tecnica non è più utilizzabile. Per ottimizzare il rapporto segnale/rumore quando si deve lavorare a profondità maggiori è stata sviluppata un'altra tecnica, la HILO, che sfrutta le proprietà della rifrazione per comprimere lo spessore di campione illuminato. \subsection{HILO} La microscopia a fogli di luce altamente inclinati (\textit{Highly Inclined Laminated Optical Sheet microscopy}, HILO) permette, analogamente alla TIRF, di illuminare uno spessore ridotto del campione. In questo caso, come mostrato in figura \ref{fig:hilo}, si sfrutta un fascio di illuminazione obliquo rispetto alla superficie del campione. Questo fascio obliquo interseca sempre il centro del sistema ottico, e quindi del cammino di raccolta della fluorescenza, ma eccitando esclusivamente i fluorofori in uno spessore ridotto del campione ($d$), ad una quota sulla superficie dipendente dallo spostamento orizzontale del fascio di eccitazione ($\Delta x$). \begin{figure}[ht] \centering \includegraphics[width=\linewidth]{images/hilo.pdf} \caption{Schema di illuminazione HILO. Effetto della rifrazione sulla dimensione del fascio (a sinistra) e relazione tra quota del campione illuminata e spostamento orizzontale del fascio (a destra).} \label{fig:hilo} \end{figure} Lo spessore verticale illuminato è tanto più piccolo quanto maggiore è l'angolo di incidenza del fascio. Nel caso dell'ottica geometrica lo spessore $d$ è dato dalla relazione: \begin{equation} d = \frac{D}{\tan\theta_t} \end{equation} Quindi potrebbe essere reso piccolo a piacere avvicinando l'angolo di incidenza all'angolo critico. Tuttavia i fasci luminosi utilizzati, tipicamente generati da un \textit{laser}, sono di tipo gaussiano e non si propagano secondo le leggi dell'ottica geometrica. In particolare il raggio minimo del fascio (\textit{waist}) e la sua divergenza sono inversamente correlati. Se $w_0$ è il minimo valore del raggio del fascio durante la sua propagazione e $z$ è la distanza, lungo la direzione di propagazione, dal punto di minimo, l'evoluzione del raggio di un fascio gaussiano seguirà l'andamento: \begin{equation} \label{eq:waist} w(z) = w_0 \sqrt{1 + \left( \frac{z}{\pi w_0^2 / \lambda} \right)^2} = w_0 \sqrt{1 + \left( \frac{z}{z_R} \right)^2} \end{equation} %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% %%%%%%%%% Le dimensioni del \textit{waist} nella direzione perpendicolare alla superficie d'incidenza vengono compresse di un fattore $\cos\theta_i / \cos\theta_r$, ma manterrà questo spessore solo entro una lunghezza trasversale confrontabile con $z_R' = \pi (w_0 \cos\theta_i / \cos\theta_r)^2 / \lambda$, prima di divergere secondo l'equazione \ref{eq:waist}. Possiamo quindi affermare che viene effettivamente illuminato uno spessore di campione $\delta x = 2 w_0 \cos\theta_i / \cos\theta_r$ attraverso una lunghezza trasversale $\delta z = 2 z_R' = 2 \pi (w_0 \cos\theta_i / \cos\theta_r)^2 / \lambda$ Questa tecnica, a differenza della TIRF, permette di effettuare una scansione in profondità del campione. Infatti, in virtù della geometria del sistema d'illuminazione, se il piano focale viene modificato allontanando o avvicinando il campione dall'obiettivo, la posizione in cui il fascio inclinato incide sul vetrino risulterà traslata orizzontalmente e, di conseguenza, il fascio di illuminazione attraverserà il centro del campione in corrispondenza del piano focale.